Repubblica 16.5.15
Che cosa perdiamo se perdiamo Palmira
Stiamo perdendo la perla del deserto. L’Onu mandi i Caschi blu a difenderla
di Paolo Matthiae
«PALMIRA è una città splendida per la posizione, la ricchezza del suolo, la gradevolezza delle acque. Da tutti i lati le sabbie assediano l’oasi e la natura l’ha sottratta al resto del mondo. Gode di una sorte privilegiata tra i due grandi imperi, quello dei Romani e quello dei Parti e sia l’uno che l’altro la corteggiano non appena riemergono i conflitti tra loro».
Così Plinio il Vecchio rievoca la straordinaria bellezza della perla del deserto, celebre per il colorito rosa delle pietre dei suoi monumenti, che risplendono di un indicibile incanto sotto il sole cocente che avvampa i palmizi che le hanno dato il nome dall’età di Hammurabi di Babilonia nel XVIII secolo avanti Cristo. Ma la città è ancora più antica e sondaggi archeologici recenti hanno provato che esisteva già nell’età di Ebla, almeno dal XXIV secolo avanti Cristo.
Le fonti antiche ricordano che Marco Antonio solo venti anni dopo la costituzione della provincia di Siria, poco dopo la battaglia di Filippi, aveva inviato la sua cavalleria per saccheggiare la ricca città e che i suoi abitanti, messi al corrente, abbandonarono la città, salvandola dalla distruzione. I suoi famosissimi arcieri furono un nerbo dell’esercito di Tito alla conquista di Gerusalemme e Adriano la proclamò città libera, mentre Caracalla all’inizio del III secolo le conferì l’ambito titolo di colonia romana. Fu soprattutto sotto gli Antonini e i Severi che Palmira cominciò, per la sua eccezionale prosperità derivante dalla funzione di protettrice delle carovane che attraversavano il Deserto Siro-Arabico, a erigere monumenti spettacolari. La sua potenza militare e politica emerse quando, dopo la disastrosa sconfitta di Edessa nel 260, l’imperatore Valeriano cadde prigioniero dei Parti e il signore di Palmira Odeinato assunse risolutamente l’iniziativa, attaccò i secolari nemici di Roma e, dopo averli respinti oltre l’Eufrate, li inseguì fino a Ctesifonte e assunse il titolo regale. Poco più tardi, nel 271, la sua vedova, Zenobia, che aveva concepito il disegno di conquistare la provincia imperiale dell’Egitto arrivò ad assumere il titolo di Augusta. La sfida contro Roma fu raccolta da Aureliano che, portando le legioni imperiali a trionfare delle agili ma inferiori schiere palmirene a Emesa, l’odierna Homs, domò le ambizioni della temeraria regina, che sembra aver finito i suoi giorni in un dorato esilio a Tivoli. Secondo lo storico Flavio Vopisco Aureliano fu implacabile con la città ribelle e così si sarebbe espresso in una sua lettera «Non abbiamo avuto pietà delle sue madri; abbiamo ucciso i loro figli, i loro vecchi, massacrato gli abitanti delle campagne».
Oggi Palmira, con i suoi monumenti leggendari, dal Tempio di Baal che, miracolosamente conservato nel suo temenos quasi intatto, è una testimonianza unica dell’architettura imperiale d’Oriente, al piccolo santuario di Baalshamin ancora oggi quasi integro, dagli spettacolari colonnati che spiccano dall’arco trionfale a tre portali e a quel gioiello raccolto di estrema suggestione che è il piccolo teatro romano fino alla valle delle tombe costellata delle diroccate torri funerarie ricchissime di sculture di uno stile provinciale tra i più significativi dell’intero impero, corre di nuovo un pericolo mortale, quello stesso della macabra sorte in cui è incorso un altro gioiello dell’architettura d’Oriente tra Romani e Parti, Hatra.
Nel 1751 il viaggiatore inglese R. Wood, riscoprendo i resti di quella città spettacolare, scrisse soltanto «scoprimmo allora in un solo momento la più grande concentrazione di rovine, tutte di marmo bianco, che ci fosse mai capitato prima di vedere». E poco più tardi, un filosofo francese, Costantin François conte di Volney, avventuratosi fino a Palmira «per interrogare i monumenti antichi sulla saggezza dei tempi perduti», arrivò ad affermare, lui stesso incredulo, che «l’Antichità nulla ci ha lasciato né in Italia né in Grecia che sia comparabile alla magnificenza delle rovine di Palmira».
Un sensazionale patrimonio culturale è oggi di fronte ad un inaccettabile destino di morte. Il Segretario Generale dell’Unesco ha già inequivocabilmente definito crimini di guerra le efferate e ripetute distruzioni di siti storici imperdibili in Iraq e in Siria. Per l’Italia il Ministro Franceschini ha chiesto giustamente la costituzione di Caschi blu dell’Onu a difesa di monumenti che sono tesoro ineguagliabile del patrimonio mondiale, come solennemente affermato dall’Unesco. Il grido di dolore del Direttore Generale delle Antichità di Damasco, Maamoun Abdulkerim, non può cadere nel vuoto.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu sta per affrontare questo tema. I grandi del pianeta devono essere concordi per affermare che Palmira non può essere abbandonata ad un destino di morte, perché sarebbe un’onta incancellabile su tutti i massimi responsabili politici dei nostri tempi per tutti i secoli a venire.