Repubblica 15.5.15
Gli incontri segreti tra ex terroristi e vittime “Insieme nel nome del cardinal Martini”
di Piero Colaprico
MILANO Era già molto malato, il cardinale Carlo Maria Martini, ma appoggiandosi al bastone arrivò nella sala dove l’aspettavano in tanti. Come ogni anno, aveva in faccia quella sua espressione che si può riassumere nel semplice “Come posso rendermi utile?”. E scattarono una foto, destinata a restare segreta. C’è il cardinale in camicia e maglione azzurro, lo si vede al centro dell’immagine. Ma intorno a lui, a Viboldone, vicino Gallarate, dove Martini morirà nel 2012, sono riconoscibili alcune persone che in quest’Italia di divisioni e fazioni, di rancori e vendette, non ti aspetteresti mai di vedere insieme negli stessi pochi metri quadrati.
Il primo a sinistra, con la mano sul fianco, è Franco Bonisoli, ex brigatista rosso, direzione strategica, uno che nel 1978 partecipò alla strage di via Fani, in cui venne uccisa la scorta di Aldo Moro, e il presidente della Dc rapito. Vicino a Bonisoli, con la sciarpa bianca, c’è però Antonio Iosa, 82 anni, che dei brigatisti fu vittima: venne gambizzato, insieme ad altri tre, il martedì santo del 1980, e trentaquattro operazioni non gli tolgono ancora i dolori, quando cammina. Dietro i due, spunta Mario Ferrandi. È forse il principale protagonista di una giornata simbolo, il 14 maggio 1977, in cui venne scattata la foto del giovane mascherato che in via De Amicis a Milano spara ad altezza d’uomo. Morì l’agente Antonio Custra, e a sparargli, dopo aver dato l’ordine d’attacco “Romana fuori”, fu proprio Ferrandi.
A destra nella fotografia con il cardinale malato, ma ben felice di essere là, perché anche quella era la sua vita, sono riconoscibili altri due uomini. Uno, più anziano, è un volto noto per ogni giornalista che abbia avuto a che fare con la stagione delle stragi e delle morti per terrorismo: Manlio Milani, sopravvissuto all’attentato fascista di piazza della Loggia a Brescia, 1974, in cui morì, tra gli altri, sua moglie Livia. Ultimo, invece, uno che non amava troppo mostrarsi in pubblico, Giorgio Semeria, ex capo brigatista, considerato il successore di Renato Curcio. Primo arresto nel 1972, passaggio alla clandestinità, omicidi, rivolte nelle carceri. Semeria è morto da poco, per un brutto tumore sbocciato nella stessa zona del corpo dove un detective gli sparò: «Mi hai sparato mentre ero ammanettato », gli gridò al processo. Chissà, ma Semeria era molto cambiato, faceva catechesi, e chi l’ha visto morire dice che «se n’è andato sereno».
Tutte queste persone, e altre ancora, uomini e donne, rossi e neri, credenti e atei, a Roma come a Milano e in giro per l’Italia, sono sei, sette anni che s’incontrano di nascosto. L’hanno fatto sotto “l’ombrello” di Martini, già entrato nella storia moderna come “cardinale del dialogo”. Dialogo con i non-credenti, con l’ebraismo, con l’Islam, con i corrotti di Tangentopoli, ma anche con i terroristi. E protagonista di un episodio che molti ex, come Sergio Segio, considerano fondamentale: quando la formazione combattente Prima Linea decise che «era finita », dove consegnò l’arsenale? In Arcivescovado, a Milano, a un sacerdote fedelissimo del cardinale, nella tarda primavera del 1984.
C’è chi chiama questi dialoghi tra vittime e autori di reato «giustizia riparativa». Chi parla di «mediazione». Chi evoca il Sudafrica, dove il presidente e premio Nobel Nelson Mandela chiese e ottenne l’amnistia in cambio delle testimonianze veritiere di chi, bianchi o neri, avevano partecipato a stragi e delitti, e alle lotte per la democrazia. Nel trascorrere degli anni, nel va e vieni dei processi, nel mondo della carta sostituito da Internet, a Milano c’è stato un criminologo dell’università Bicocca, Adolfo Ceretti, che d’accordo con i gesuiti milanesi (Martini era gesuita, come papa Francesco) ha provato a organizzare una lunga serie di appuntamenti per aiutare a discutere chi aveva sparato e chi aveva subito il lutto, chi non s’era mai perdonato e chi non avrebbe mai voluto perdonare.
Ognuno dei partecipanti s’è vincolato al silenzio con l’esterno, al rispetto reciproco di quanto accaduto, e in qualche modo “verbalizzato”, dietro le quinte. Anche perché, basta fermarsi a riflettere, non è facile affrontare la tempesta di sentimenti che può scatenare un dialogo naturale — come questo, già successo — tra due persone: “Allora sei tu hai ucciso mio padre?”. “Sì, ti dico com’è andata”, ha risposto Mario Ferrandi ad Antonia Custra, figlia del poliziotto che uccise in via De Amicis. E insieme (era il 2007) sono andati sotto la lapide del padre, che lei non ha mai conosciuto.
Va detto che questa foto con Martini, con le vittime e con gli ex terroristi, questa immagine che mostra un piccolo mondo in larga parte dimenticato, compare negli atti dell’ordinanza con cui lo stesso Ferrandi ottiene dal tribunale di sorveglianza, presieduto dal giudice Guido Brambilla, di potersi riprendere il diritto di votare. Diritto che gli viene concesso, perché “ha dato prove effettive e costanti di buona condotta”.
Anche altri hanno lasciato qualche traccia del loro “incontro”, come Franco Bonisoli e Agnese Moro, figlia dello statista ammazzato. Si sono visti più volte — e gli ex terroristi sono anche andati alla tomba di famiglia di Moro, dove in passato è stato sconsigliato ad alcuni democristiani eccellenti d’accostarsi — e poi hanno parlato in pubblico di quello che hanno visto, fatto, provato. La prima volta in una scuola di Verona, nel marzo 2011, con gli studenti. Poi a Genova, a un festival organizzato dal Comune. Poi a Oristano, dove l’arcivescovo Ignazio Sanna ha detto che “il perdono, soprattutto l’accettazione del perdono stesso, li ha fatti diventare amici”.
Amici: anche Martini usava questa parola, tanto con le vittime, quanto con gli assassini. E guardando la foto, se uno non sa nulla, a questo forse pensa: saranno amici del cardinale, che di gente che gli voleva bene ne aveva tanta, e dovunque.