giovedì 14 maggio 2015

Repubblica 14.5.15
Lavagna e gessetto, il premier sale in cattedra per far scendere gli insegnanti dalle barricate
di Sebastiano Messina


LÀ FUORI professori e studenti scioperano contro di lui, boicottano i test invalsi, preparano le barricate per gli scrutini. E lui cosa fa? Si mette in maniche di camicia, va in una biblioteca, si mette davanti a una lavagna e difende la sua riforma. Spiegando. Sorridendo. Dicendo: «Discutiamone ».
Bisogna risalire alla scrivania di ciliegio su cui Berlusconi firmò quel “contratto con gli italiani” che gli fece vincere le elezioni del 2001, per trovare un coup de théâtre paragonabile al video di ieri di Matteo Renzi. Con una fondamentale differenza, però: che il Berlusconi di quel contratto recitava il ruolo del Grande Venditore, cioè di se stesso, e neanche quando disegnava a “Porta a porta” le autostrade e le ferrovie che avrebbe completato in un battibaleno, o si presentava in tv davanti al plastico del ponte sullo Stretto, riusciva a cambiare personaggio. Berlusconi era e Berlusconi rimaneva.
Presentandosi come un professore quarantenne con la passione per la sua materia (la riforma), scegliendo con cura non una lavagna di carta come quella su cui l’ex Cavaliere disegnò le autostrade rimaste, appunto, sulla carta, ma una lavagna vera, che sembrava presa in prestito da un liceo, Renzi ha invece compiuto un’operazione assai più raffinata: ha rubato il ruolo ai suoi contestatori, i docenti, ed è riuscito a parlare per 17 minuti ai loro alleati (studenti e genitori) dalla loro stessa cattedra.
Una lezione breve, poco più di un quarto d’ora, contestabile finché si vuole nei contenuti ma efficacissima nella formula. Niente scrivania presidenziale. Niente poltrona da intervista televisiva. Renzi è in piedi, col gessetto in mano. Dietro di lui si vedono i volumi di una Treccani e due file di codici giuridici. Libri, comunque.
La lezione può cominciare. E improvvisamente il premier-professore non è più l’uomo di governo che difende testardamente la sua proposta, ma si è trasformato in un interlocutore che non ha paura della protesta e anzi dice di essere «proprio contento» del dibattito suscitato, ed è diventato un teorico del dialogo. «Non chiamiamola riforma», arriva a dire, riducendola con modestia dialogante ad «alcuni punti su cui vorrei discutere insieme a voi». Naturalmente lì c’è solo il cameraman, ma è il gesto che conta.
I cinque punti che scrive uno dietro l’altro sulla lavagna – facendo poi il riassuntino finale, come i veri professori – sono studiati per smontare gli slogan della piazza. Agli studenti sventola l’immagine di un nemico comune, «quella disoccupazione giovanile che è arrivata al 44 per cento », poi assicura che le loro vacanze non sono in pericolo e giura che lui sarà il primo a difendere il diritto allo studio, «perché tutti devono essere messi sullo stesso punto di partenza». Ai genitori annuncia l’arrivo di quattro miliardi per l’edilizia scolastica.
Ma è ai professori, il vero nucleo duro della protesta della scuola, che dedica il cuore della sua lezione televisiva. Elogia «la professoressa che nonostante il controsoffitto pericolante insegna ai ragazzi ad allargare il cuore con una poesia». Fa autocritica per l’autorevolezza perduta dai docenti, «colpa nostra, della nostra generazione di genitori ». Garantisce che «non ci saranno presidi-Rambo ».
Ma poi va a capo, scandisce «parliamoci chiaro », e con quel tono dolce e quel viso sorridente assesta qualche frustata a quei docenti che dicono «nessuno mi può giudicare» e a quelli che «boicottano i test Invalsi e minacciano il blocco degli scrutini». La scuola non è mia né vostra, avverte, «è il luogo dove si cambia il Paese o si resta nella palude». Eppure anche ai professori Renzi offre il dialogo («Discutiamone, parliamone») sia pure in zona Cesarini. Sperando che gli credano, dopo che ha parlato come uno di loro, se non con il cuore con il gessetto in mano.