venerdì 1 maggio 2015

Repubblica 1.5.15
Giorgio Napolitano
“Il dramma disoccupati oltre il livello di guardia il sindacato si è arroccato ora si deve rinnovare”
In occasione del Primo maggio l’ex presidente della Repubblica lancia l’allarme sull’emergenza occupazione e propone un nuovo Statuto dei lavoratori
intervista di Umberto Rosso


ROMA Presidente Napolitano, come ha visto cambiare l’Italia del Primo Maggio, nell’album delle sue tante trascorse celebrazioni della Festa al Quirinale?
«A partire dal 1° maggio del 2007 ho da Presidente visto via via e in modo sempre più drammatico cambiare il quadro di riferimento anche e soprattutto per il mondo del lavoro sotto i colpi della crisi finanziaria globale e poi, sul piano economico e sociale, europea, in particolare nell’Eurozona. E il cambiamento ha avuto come fattore caratterizzante e dominante la perdita di posti di lavoro, l’aumento della disoccupazione, la crisi di occasioni di impiego e di prospettive per i giovani. Io ho dato forte attenzione al tema degli incidenti sul lavoro, sollecitando politiche pubbliche di prevenzione e comportamenti coerenti di tutti gli attori del mondo delle imprese, compresi i comportamenti anche individuali dei lavoratori. E miglioramenti nel senso di una certa riduzione degli incidenti sul lavoro negli anni scorsi ci sono stati. Ma su tutto, ripeto, ha dominato il problema della caduta dell’occupazione ».
E oggi, qual è a suo avviso la foto del Primo maggio 2015? Un paese che, anche a causa della mancanza di lavoro, resta sempre stanco e sfiduciato, con poca coesione sociale, che perciò rischia di voltare le spalle anche all’accoglienza degli ultimi arrivati, gli emigrati? Ci sono segnali di un’inversione di tendenza nel mercato del lavoro?
«Oggi, in questo 1° maggio 2015, resta diffusa e vivissima la preoccupazione per il lavoro che non c’è o per il lavoro che ancora si perde da parte di non pochi, nonostante i segni e i dati di una ripresa economica. Non indulgerei all’immagine troppo semplificata in senso negativo di “un paese stanco e sfiduciato, con poca coesione sociale”, perché numerosi e significativi indicatori ci dicono di una ripresa, più specificamente, di fiducia tra gli operatori economici e in qualche misura, più in generale, tra i cittadini. E non trascurerei nel giudizio su questi troppi anni di crisi assai grave che abbiamo vissuto, elementi positivi che si sono manifestati in termini di coesione sociale, soprattutto se si pensa alle prove di solidarietà e di coesione che sono venute da quell’aggregato fondamentale che è la famiglia, essenzialmente a favore dei figli senza lavoro. Però, certo, non possiamo allentare in alcun modo l’allarme per la disoccupazione giovanile, giunta oltre ogni livello di guardia a partire dal Mezzogiorno, e di conseguenza allentare l’impegno a riflettere fino in fondo sulla cruciale centralità, non solo in Italia e in Europa, della questione del lavoro nell’orizzonte di uno sviluppo nuovo dell’economia da perseguire nel futuro, cogliendo fin da oggi le complessità e criticità, non semplicemente italiane, dei nodi da sciogliere. Quanto anche un ritorno a indici complessivi di crescita economica potrà riflettersi in creazione di lavoro, tenendo conto della competizione mondiale, delle trasformazioni tecnologiche, dei mutamenti radicali che già si colgono nell’offerta di lavoro, nella transizione verso nuove professionalità e possibilità di impiego? Questo è il punto su cui concentrarsi».
Quanto hanno contato nell’accenno di ripresa italiana, e quanto e come possono farlo in futuro, i provvedimenti della Bce presieduta da Mario Draghi?
«La risposta sta nel larghissimo apprezzamento e consenso che hanno raccolto gli indirizzi e le decisioni della Bce nel periodo più recente: la presidenza di Mario Draghi ha dato prove straordinarie di coraggio innovativo, di assunzione di responsabilità e di determinazione per spingere l’Europa fuori dalla crisi».
E quanto la riforma del mercato del lavoro, il Jobs act, approvato dal governo di Matteo Renzi?
«E’ ancora presto, credo, per un giudizio sulla legge di riforma del mercato del lavoro, le cui deleghe sono oltretutto ancora in via di attuazione. Ma penso che sarebbe sbagliato attestarsi su una negazione, o preventiva svalutazione, di risultati e potenzialità già visibili di quella legge, quali da diverse parti vengono, per quanto mi risulta, decisamente apprezzati».
Il giudizio di una parte del mondo sindacale è molto critico sul Jobs Act, sia sotto il profilo delle tutele per le modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che sul fronte dei risultati concreti: denunciano uno strappo epocale, con la figura del precario che prende il posto del lavoratore a tempo pieno.
«Conosco le critiche del mondo sindacale verso quella legge. Ma è un fatto che, sul punto tanto fortemente sollevato nel recente passato, del superamento della precarietà si sta andando verso una diffusione di nuovi contratti a tempo indeterminato. Cito questo aspetto, pur essen- do consapevole degli altri motivi di critica espressi dai sindacati».
E’ il modello stesso dell’organizzazione sindacale come l’abbiamo conosciuto in questi anni che non tiene più, arroccato in difesa dell’esistente e in crisi di rappresentatività?
«Si, alla luce di un’esperienza politica che ho vissuto per lunghi decenni nel rapporto col movimento sindacale, sono preoccupato di un “arroccamento in difesa” che si è di certo fatto pesantemente sentire in questi anni. Concordo con quegli studiosi che hanno posto l’accento sulla questione- chiave, che non è quella di temere di rinunciare alle conquiste del secolo scorso, ma di conquistare nuove forme di protezione per i lavoratori di oggi. Le conquiste del passato non sono le uniche immaginabili e non sono tutte difendibili in un contesto generale radicalmente mutato. Se da parte del sindacato si assume questa ottica, acquista un senso e può costituire un approccio costruttivo l’idea di proporre «un nuovo statuto dei diritti dei lavoratori». L’organizzazione sindacale non può non essere impegnata in un processo di rinnovamento, tenendo peraltro fermi alcuni connotati fondamentali che ha presentato nell’esperienza italiana».
Ma può essere la ricetta giusta quella di fare del sindacato un «soggetto politico», di mettere in campo una «coalizione sociale », come quella lanciata dal leader della Fiom Landini?
«Quei connotati sono stati ribaditi in modo a mio avviso pienamente condivisibile in un’intervista data nel marzo scorso da Susanna Camusso di fronte all’ipotesi che si è delineata di una cosiddetta «coalizione sociale». Altra questione è il riconoscimento come «soggetto politico» di un sindacato che rimanga ben fermo nel riproporre la sua caratterizzazione come rappresentativa di una parte della società — il mondo del lavoro — e nel considerare suo terreno proprio e fondamentale la contrattazione. Il profilo di «soggetto politico» il sindacato se lo è conquistato in Italia fin dagli albori dell’era repubblicana, esprimendo anche una sua visione dello sviluppo sociale e democratico nell’interesse generale del paese. Ma vorrei ricordare come una personalità della sinistra tra le più aperte nel riconoscere questo profilo e ruolo del sindacato, Pietro Ingrao, seppe anche, da Presidente della Camera, criticare la concezione riduttiva di un «triangolo partiti-sindacati-governo, che decidono le cose per conto loro con un Parlamento che le registra». La possiamo considerare una critica al metodo della «concertazione», che pure ha in determinati periodi mostrato le sue virtù, ma che è ormai storicamente superato».
Quest’anno il Primo Maggio coincide con l’inaugurazione dell’Expo di Milano. La vigilia è stata segnata da scandali e arresti clamorosi, dal riemergere di una questione morale legata sopratutto agli appalti per le grandi opere.
«E’ significativa e, suppongo, non casuale la scelta del 1° maggio per l’inaugurazione dell’Expo, la cui idea e il cui programma — sanciti nella Carta di Milano, cui convintamente aderisco — non possono confondersi con scandali che pure ne hanno segnato il cammino preparatorio e hanno concorso al riemergere in Italia di una ben precisa questione morale come quella legata agli appalti per le grandi opere».
E ce la faremo, signor Presidente, a fare dell’Expo davvero la vetrina dell’Italia migliore?
«Lo spero vivamente, ed è possibile soprattutto perché di «Italia migliore» da mostrare all’Expo ce n’è per fortuna tanta in tutti i campi».