giovedì 28 maggio 2015

La Stampa 28.5.15
Gli impresentabili e la rimonta dei Cinque Stelle
di Marcello Sorgi


È del tutto prevedibile che gli effetti della simultanea esplosione del caso De Luca nel Pd, e di quello della «lista degli impresentabili» in tutti i partiti che li hanno candidati o se li ritrovano alleati, finiranno per risolversi elettoralmente a favore del Movimento 5 stelle, il solo a non dover soffrire né dell’uno né degli altri.
Le due vicende infatti sembrano create apposta per calare nella realtà la caricatura grottesca con cui Grillo e i suoi continuano a descrivere l’Italia: un Paese, a sentir loro, governato da corrotti e avanzi di galera, amministrato in spregio di qualsiasi regola che non sia la legge del più forte, avviato a un declino economico, culturale, ambientale, e privo perfino di rispetto umano nei confronti dei più deboli.
Va detto subito che De Luca non è affatto un campione del sistema degenerato che il Movimento 5 stelle dichiara di voler abbattere. Da sindaco di Salerno, non è stato un cattivo amministratore. La condanna per abuso di ufficio che potrebbe costargli il posto di governatore non è grave, anzi è risibile, secondo i suoi difensori, dal momento che sono in pochi i primi cittadini in Italia a non essere incappati in quel genere di reato. Piuttosto, l’aspetto che fa di De Luca un impresentabile, prima ancora che un ineleggibile, come ha sentenziato la Cassazione, è l’arroganza, il modo di comportarsi, quel suo essere e apparire come padrone di un piccolo ma decisivo partito personale che controlla una porzione importante di territorio e di elettori: così irrinunciabili, da convincere anche Renzi, alla fine, a evitare il braccio di ferro contro di lui. Personaggio ideale - come, in piccolo, gli altri esponenti della lista degli orrori annunciata dalla Commissione Antimafia, e in parte trapelata -, questo De Luca, della casta meridionale che Grillo, da par suo, mette in scena ogni giorno nelle piazze. Non poteva fargli un regalo migliore, per richiamare alle urne anche i più svogliati elettori grillini, Renzi, rinunciando a rottamarlo. E accettando, seppur criticandole, le discusse alleanze locali con gli altri impresentabili sanzionati dall’Antimafia, che hanno fatto arrossire in Puglia un tutto d’un pezzo - legge e ordine! - come Michele Emiliano.
È per questo motivo che anche in vista di una possibile massiccia astensione, i 5 stelle, domenica, saranno nuovamente il secondo partito, con un distacco sul Pd che rispetto all’anno scorso - le europee del 40,8 per cento di Renzi e del poco più di 20 di Grillo - dovrebbe sensibilmente diminuire. C’è perfino chi dice che in Campania la gara tra i primi due potrebbe diventare un testa a testa; e addirittura, in Liguria, la regione dell’ex comico genovese, la candidata grillina alla presidenza Alice Salvatore risultare la più votata, sopra Paita, Toti e Pastorino. 
Ma anche senza ascoltare i boatos della vigilia, se solo il risultato delle regionali dovesse confermare, punto più punto meno, la classifica del 2014, con Renzi avanti, Grillo secondo all’inseguimento e Salvini terzo, converrà ragionare fin d’ora sulle conseguenze di un quadro politico che tende a stabilizzarsi, e di un bipolarismo, tra Pd e M5s, che va a sostituire quello classico tra centrosinistra e centrodestra. In mancanza di una ricostruzione del cartello unitario a cui Berlusconi sostiene di volersi dedicare, ma che a Salvini sembra non interessare, la prima di queste conseguenze sarebbe un ballottaggio, alle prossime elezioni politiche e in forza dell’Italicum, tra Renzi e un candidato premier grillino. Non Grillo, che in prospettiva assumerà un ruolo più defilato. Ma un esponente delle istituzioni come il vicepresidente della Camera Di Maio, se non proprio lui. Di Maio ha alle spalle una storia moderata, viene da una famiglia di destra, e nell’immaginario della rete è l’uomo adatto per la conquista del palazzo d’inverno.
D’altra parte è a questa prospettiva, pur nella confusione che accompagna ogni mossa del Movimento, che il gruppo dirigente grillino, chiamiamolo così, e Di Maio in prima persona, si stanno dedicando da qualche mese. Se si studia il comportamento parlamentare dei 5 stelle alla Camera, si può notare che, anche quando l’ostruzionismo è rimasto il punto d’arrivo di un’opposizione durissima, sempre è stato preceduto da un tentativo di confronto col Pd e con il governo. Sulla legge elettorale, non a caso, c’è stato un avvicinamento che ha portato di nuovo a un faccia a faccia in streaming, poi seguito da una rottura. Sulla legge anticorruzione solo a un certo punto il giudizio è diventato negativo («troppo edulcorata»); e a una mancata intesa si è arrivati pure sulla riforma Rai. Ma sui giudici costituzionali (e sul Csm), ad esempio, l’accordo con il Pd alla fine s’è trovato. E sugli ecoreati, la scorsa settimana, i deputati Democrat e quelli grillini hanno votato e approvato insieme la nuova legge.
Di qui a dire che un secondo forno s’è aperto per Renzi, dopo quello, ormai serrato, dell’ex patto del Nazareno, ce ne corre. Soprattutto perché Renzi non è tipo da lasciarsi incantare, anzi è capace di andarsi a rivendere le convergenze con i 5 stelle per riportare Berlusconi sulla retta via. È inutile correre troppo, basta valutare i fatti per quel che sono: domenica, molto probabilmente, i due simboli più votati saranno per la seconda volta Pd e M5s. La distanza che li separa, in percentuale, diminuirà. Se la destra non si riorganizza - e al momento non è aria -, alle prossime elezioni politiche, che potrebbero arrivare prima del 2018, in ballottaggio andrebbero Renzi e Di Maio. E se Renzi rivincerà, com’è possibile, l’altra metà del cielo politico italiano sarà grillina. Non è poco.