lunedì 25 maggio 2015

La Stampa 25.5.15
Cosa succede se Atene non paga
Nella migliore delle ipotesi ci sarà un salvataggio, ma creerà problemi alla Germania che rischia una crisi politica
Senza intesa andrà inbancarotta, tornerà alla dracma o a una valuta parallela. Meno gravi gli effetti sull’euro
di Tonia Mastrobuoni


Il primo scenario - non privo di incognite - è quello di un accordo tra i creditori internazionali e la Grecia che consentirebbe di sbloccare la tranche da 7,2 miliardi di euro di aiuti che è rimasta congelata dall’arrivo del governo Tsipras e ha costretto sinora Atene a ricorrere a soluzioni disperate per rimborsare i debiti.

Nel caso di un’intesa con il “Brussels group”, quella somma servirebbe a pagare gli imminenti rimborsi di giugno al Fmi da 1,6 miliardi di euro e di luglio da 3,5 miliardi alla Bce. Il default sarebbe scongiurato, nel breve, ma i fondi servirebbero soprattutto per guadagnare tempo e avviare il negoziato successivo. Almeno 30 miliardi di euro serviranno alla Grecia quest’estate per non collassare di nuovo, un terzo pacchetto di aiuti che andrebbe nuovamente discusso tra le parti.
I fattori di rischio di questo primo scenario non mancano. E non risiedono solo ad Atene, ma nei Paesi dove bisognerà approvare i nuovi pacchetti ellenici. Germania in primo luogo. Secondo alcuni esponenti del partito di Angela Merkel, la maggioranza al Bundestag sarebbe ormai traballante. A fine febbraio, dopo l’intesa dell’Eurogruppo che aveva deciso di riavviare quattro mesi di negoziati con Atene, il governo ha subito la più grave defezione di deputati dall’inizio della crisi. Allora 22 deputati Cdu-Csu hanno votato contro e 5 si sono astenuti, sui 311 parlamentari conservatori. Nei giorni scorsi, indiscrezioni parlavano di un numero di ribelli lievitato ormai a un centinaio. Naturalmente, Merkel può contare sulla Spd, per approvare i nuovi aiuti. Ma che l’opposizione nel suo partito a un prolungamento delle trattative con Atene sia quadruplicata in neanche quattro mesi è un segnale devastante.
Il secondo scenario è quello di un collasso delle trattative, da cui discenderebbe l’impossibilità dei greci di ripagare i rimborsi di giugno al Fmi. La Grecia fallirebbe e, senza interventi esterni, uscirebbe dall’euro per tornare alla dracma.
A quel punto bisognerebbe fare i conti con due scenari: il futuro della Grecia e quello dell’euro. Sul primo, esistono una serie di ipotesi di scuola elaborate da qualsiasi banca d’affari o think tank degni di questo nome, anche in base a esempi precedenti di default “classici” come l’Agentina o l’Islanda. Ma sono scenari parziali: non esiste un precedente di un’uscita da una moneta comunitaria per tornare a una nazionale. Nel caso di bancarotta, la Grecia attraverserebbe un periodo paragonabile a una guerra: fallirebbe sul proprio debito, subirebbe una corsa agli sportelli e sarebbe costretta a bloccare i capitali e a salvare le banche, non avrebbe neanche più accesso al mercato per i bond a breve (dagli altri è già fuori dal 2010, quando è partito il primo piano di aiuti) perché subirebbe una fiammata di tassi di interesse e un aumento dell’inflazione a causa di una valuta che verrebbe immediatamente massacrata dai mercati (il petrolio, tanto per dirne una, si paga in dollari). Oltretutto, la grande incognita sarebbe: i debiti contratti dalle famiglie, dalle banche e dalle imprese greche in euro - come un mutuo o a un acquisto a rate - in che valuta verrebbero ripagati? Anche chi argomenta in modo superficiale, sostenendo che la Grecia potrebbe riprendersi velocemente grazie all’export, non fa i conti con un’economia che esporta poco e male. E’ la conclusione a cui arriva anche Guntram Wolff, direttore di un autorevole think tank come Bruegel, in un paper recente.
Le conseguenze sull’euro, secondo molto analisti, sarebbero meno gravi di qualche anno fa perché la Bce, con il Qe, ha steso un ombrello protettivo sull’area; ma anche perché le banche sono in una situazione meno precaria e c’è il paracadute dell’Esm. Però verrebbe contraddetto il comandamento dell’ dell’euro e si rischierebbe di tornare a un sistema monetario da cui qualsiasi Paese potrebbe essere cacciato. A meno che l’eurozona facesse uno sforzo contingente per una maggiore integrazione, sul piano fiscale o finanziario, segnalando ai mercati che si procede sulla via della convergenza. Ma sono ragionamenti, questi, che si fanno più a Berlino che a Parigi o a Roma.
Infine, c’è l’ipotesi che la Grecia fallisca ma non esca dall’euro, che riesca a concordare con i creditori una soluzione per introdurre temporaneamente una valuta parallela o un sistema di mini-assegni. Ma è problematica anzitutto dal punto di vista politico: al momento il sistema finanziario è tenuto in piedi dagli Ela, i fondi emergenziali della Bce. Se Atene fallisse, le banche diventerebbero insolventi e la Bce sarebbe costretta a tagliare l’Ela, condannandole al fallimento. E nel caso di un sistema valutario interno, si porrebbe lo stesso problema della dracma: sarebbero carta straccia e rischierebbero comunque di far fallire a catena famiglie e imprese. Atene sarebbe dunque costretta, per scongiurare un ritorno tout court alla dracma, a chiedere un piano di aiuti ai creditori, in cambio di impegni prevedibilmente pesanti. Se le trattative sono ferme e i rapporti tra Atene e i creditori incancreniti da mesi, non si capisce come potrebbero miracolosamente risolversi e produrre, dal giorno alla notte, un piano miliardario di aiuti.