La Stampa 22.5.15
Sul treno dei migranti in fuga dall’Italia “Se ci prendono le impronte siamo finiti”
A Bolzano centinaia di profughi sognano di passare in Germania Ma quelli che vengono identificati non potranno chiedere asilo là
di Niccolò Zancan
Lo chiamano «il treno della libertà». Parte tutti i giorni alle 12,34 dal binario 6 della stazione di Bolzano. Passa il Brennero, attraversa l’Austria e arriva a Monaco di Baviera, Germania, Europa: il massimo dei sogni sognati, da questi ragazzi scappati dalla Eritrea, ormai più di un anno fa.
Oggi sono 123, compresi 9 bambini, in media con il periodo. Il più preoccupato di tutti, il più triste, si chiama Efrem, ha 19 anni, trema a scossoni per il freddo. «Me l’hanno presa, me l’hanno presa!», ripete con i denti bianchi e la faccia stravolta. «I poliziotti mi hanno costretto. Eravamo in Sicilia, non saprei dire dove, Sicilia, Sicilia... Hai capito? Mi hanno preso l’impronta del pollice. Questa qua, guarda... Solo questa. Sono fregato, vero?». Vero. Quando in Germania la sua impronta verrà rintracciata nella banca dati, Efrem verrà riaccompagnato alla frontiera italiana. Si può chiedere asilo politico solo nel primo posto in cui si viene identificati. Ecco perché lui è così triste. Ed ecco perché tutti gli altri chiamano questo treno in arrivo - mancano dieci minuti - il treno della libertà. Perché sono in fuga anche dall’Italia. E ci stanno riuscendo. Sono quasi liberi. Se passeranno la frontiera, riusciranno a dare le impronte digitali in Germania, potranno chiedere asilo politico lì.
Il futuro in un’impronta
Nel 2014, su 150 mila migranti sbarcati sulle coste italiane, solo 70 mila sono stati identificati. Più di uno su due ce l’ha fatta: si è dileguato verso il Nord Europa. Ma adesso ci sono le nuove misure antiterrorismo. E i poliziotti che lavorano qui non sanno come comportarsi. Uno di loro ci viene incontro: «Se li fermiamo - dice - veniamo accusati di razzismo. Se li lasciamo passare, non facciamo il nostro dovere. Siamo in estrema difficoltà. Sono giornate tremende. Servono decisioni dall’alto».
Succede da due mesi. Deve esserci stato un passaparola. Bolzano non aveva mai visto niente del genere. Puoi trovare un addetto alle pulizie più che insofferente: «Settantamila alpini non lasciano lo schifo che lasciano questi qui... ». Oppure Elena, una ragazza di 24 anni, di mestiere guida turistica, residente a Merano: «Quando li ho visti per la prima volta, sono corsa a comprare acqua e pane. Ora vengo tutti i giorni alla stazione come volontaria. I profughi arrivano da Eritrea, Somalia e Siria. Prendono il treno della notte da Roma, scendono alle 8 di mattina, ripartono alle 12 per Monaco. Tutti sono nel panico per le impronte. Molti sono riusciti ad arrivare fino a qui senza farsi identificare. Hanno paura. Hanno bisogno di cibo e vestiti. Non capiscono bene cosa succede e neppure dove si trovino esattamente».
L’altoparlante annuncia il treno «80» in tedesco e in italiano. Di colpo la pensilina si riempie. Anche oggi, scatta la corsa ai vagoni. Con i bambini in braccio, i sacchetti di plastica, le gambe zoppicanti, offese chissà quando, lungo l’esodo. Sui treni della compagnia Obb viaggiano anche agenti austriaci. Presidiano gli ingressi come dei buttafuori. Oggi fanno salire i profughi solo al fondo, negli ultimi due vagoni. E solo dopo aver fatto salire prima i bianchi. Non c’è una logica. Ma Efrem e i suoi amici non sono persone che si impressionano per così poco.
Due mondi
Hassan Abdullhadi, 24 anni, neppure si siede. Anche se ha un regolare biglietto pagato 68 euro, non crede di poterselo permettere. «Vengo dal Darfour - dice - sono stato 7 anni nel campo profughi di Kakuma in Kenya. Ho passato il deserto. In Libia mi hanno tenuto 7 mesi in carcere. Volevano dei soldi per lasciarmi andare. Ma io non ho nessuno. Mio padre è morto. Non vedo mia madre da 11 anni. Mi hanno strappato le unghie, mi hanno frustato la schiena. Poi mi hanno fatto andare. Sul gommone eravamo in 110. Ogni tanto il motore si spegneva... ».
Nel vagone numero 5, turisti tedeschi di ritorno da Venezia, trolley rossi, biciclette di lusso, appese in verticale. Nel vagone numero 7, Hassan Abdullhadi e i suoi compagni di viaggio. Qualcuno dorme sfinito, ma lui no. «Sono preoccupato» dice. «Ho paura che la polizia non ci lasci passare». Sta attaccato alla sbarra del ripiano porta valigie. Non sorride mai, nemmeno al Brennero, ormai al confine, quando scopre la neve in un giorno di maggio: «In Libia ho vista la neve di sabbia. La vostra di cosa è fatta?».