giovedì 21 maggio 2015

La Stampa 21.5.15
Riforma scuola, sì della Camera
La battaglia si sposta in Senato
Governo soddisfatto, ma Bersani e una trentina del Pd non votano
di Carlo Bertini

La «Buona Scuola» con 100 mila assunzioni e i presidi-manager passa il primo giro di boa alla Camera e lo passa anche bene vista con gli occhi di Renzi, dato che il numero simbolico di 316 sì vuol dire che il governo strappa la maggioranza assoluta su una delle riforme cardine del suo programma. Ma se i 137 no di Sel, Lega, 5Stelle e Forza Italia sono scontati, al premier certo non fa piacere che una trentina di deputati della minoranza anche questa volta non votino, dopo aver disertato l’ok all’Italicum e al jobs act. Un problema politico per il governo. Per i ragazzi invece gli esami sono salvi, malgrado le proteste: nessun blocco degli scrutini, esami di terza media e maturità garantiti, assicura l’Autorità di garanzia, cui sono pervenute le proclamazioni dei sindacati autonomi di due giorni di sciopero dopo la chiusura delle scuole.
La sinistra non si arrende
Ora la partita si sposta a Palazzo Madama, dove la minoranza Pd ha un asset prezioso, una ventina di voti che possono fare la differenza perché cruciali per far passare o meno la legge. In sintonia con una lettera di Cuperlo, Speranza e una cinquantina di deputati, i senatori preparano sfilze di emendamenti sulla chiamata diretta degli insegnanti da parte dei presidi, sui precari di seconda fascia rimasti esclusi dal piano assunzioni, sulle «detrazioni fiscali garantite anche alle private e parificate che sono in gran parte dei diplomifici», per dirla con Miguel Gotor. «Riaffronteremo alcuni punti», promette la Boschi, che terrà le fila della trattativa finale, quella più difficile. Renzi fissa i punti fermi. «La scuola non sia terreno di scontro. Il blocco degli scrutini? Sarebbe un errore clamoroso. Di cosa si lamentano i sindacati che non scioperarono con la Fornero? Che mettiamo 3 miliardi nella scuola? Noi vogliamo presidi che non siano sceriffi o passacarte ma che si prendano più responsabilità».
Tempi contingentati
La prossima settimana dunque si lavora in Commissione al Senato, la corsa contro il tempo scatta da qui al 15 giugno, entro quella data va approvata la norma che contiene l’assunzione di 100 mila precari, oltre a una serie di novità non da poco. Che scatenano le proteste dentro e fuori il palazzo, dove i Cobas della scuola fin dalla mattina si fanno sentire con un sit in rumoroso davanti alle finestre di Montecitorio. «Con il voto di oggi non si conclude la battaglia», avverte minacciosa la Camusso.
Schiaffi e urla
Nell’emiciclo scene di ordinaria protesta: il coro di Sel «Scuo-la-pub-blica», i 5Stelle che coprono i loro banchi di lettere cubitali con la scritta «Fuori il Pd dalla Scuola». Dei big solo Enrico Letta arriva e vota sì, Bersani e Bindi non ci sono. L’aria si surriscalda quando termina il voto e tutti escono: rissa sfiorata tra un deputato grillino, Tofalo e uno del Pd, Marracu, sulle scale che portano ai bagni. Lo denuncia il pddì Miccoli in aula,Tofalo nega ma la Boldrini dispone un’indagine sull’episodio. Fuori al sit in volano i fischi, «uscite dal Pd», urlano i Cobas a Fassina che esce a sostenere la lotta di professori e studenti. «I sindacati hanno il diritto di portare fino alle estreme conseguenze la loro battaglia», infiamma gli animi il leader di Sel, Nichi Vendola. Solo dopo che chiuderanno le scuole, la riforma riceverà il timbro finale.

Corriere 21.5.15
Avanti sulla scuola, sinistra pd divisa
di C.Vol.

ROMA Trecentosedici sì. Cento-trentasette no. Un astenuto. «La Camera approva». Nell’Aula di Montecitorio si conclude un pezzo di strada della Buona Scuola. Più di due mesi dopo quel 12 marzo in cui il consiglio dei Ministri licenziò il disegno di legge 2.994 per riformare il sistema scolastico italiano e lo inviò al Parlamento chiedendo di «fare bene e fare presto». Alla Camera scoppiano gli applausi. Ma volano anche parole grosse con i 5 Stelle che sui banchi stendono fogli a comporre la scritta: «Fuori il Pd dalla scuola». Loro hanno votato contro, come Sel, Lega e Forza Italia.
La sinistra del Pd si è divisa, una parte continua a non gradire la riforma renziana: è mancato il voto di 40 deputati, 12 assenti giustificati, ma 28 esponenti della minoranza, tra cui Fassina, Bersani, Cuperlo, Speranza ed Epifani, sono usciti dall’Aula. E in una lettera inviata ai senatori Pd, che presto dovranno esaminare il ddl, la minoranza dem invita a «ricucire la frattura» con quella parte di «insegnanti, studenti, famiglie che vive la riforma come una ferita», perciò «il contributo e l’impegno del Senato possono condurre a ulteriori e necessari cambiamenti del testo che vi consegniamo». La ministra Maria Elena Boschi sottolinea: «Maggioranza assoluta». Ma l’esame al Senato che attende la Buona Scuola non sarà altrettanto facile, visti i numeri più esigui di cui dispone la maggioranza. E già i 5 Stelle con Luigi Di Maio affilano i denti: «State certi che daremo battaglia, sarà un Vietnam».
Ma la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini è «emozionata e soddisfatta, molto soddisfatta, si avvicina il raggiungimento di un obiettivo centrale per questo governo: il rilancio del nostro sistema di istruzione. E il premier Matteo Renzi ringrazia i deputati del Pd che «hanno trasformato idee e riunioni sulla scuola al Nazareno in una buona legge» e rilancia: «Andiamo avanti, ma i professori devono essere coinvolti, la scuola non deve essere più terreno di scontro, ripartiamo insieme». E sui presidi: «Non li voglio sceriffi, ma nemmeno burocrati e passacarte».
Fuori dall’Aula la piazza però non festeggia. Davanti a Montecitorio, prof e sindacati sulla lavagna scrivono: «La Buona Scuola siamo noi» e gridano «dimissioni, vergogna». Decine di studenti dell’Uds in tutta Italia fin dalla mattina circondano in un grande abbraccio le loro scuole per dire «#nellenostremani». I sindacati aspettano l’incontro con la Giannini lunedì, ma non fanno passi indietro sulla mobilitazione. Il segretario Cgil Susanna Camusso è netta: «Con il voto di oggi non si chiude la battaglia, ma la battaglia continua». E Flc Cgil, Cisl, Uil, Fnals Confsal e Gilda fanno sapere che proteste e assemblee nelle scuole non si fermano e il 5 giugno portano migliaia di prof nelle piazza d’Italia per la fiaccolata «La cultura in piazza». Ma cedono sul blocco degli scrutini: sarà solo un’ora di sciopero per i primi due giorni «nel rispetto delle disposizioni di legge». Anche Unicobas, Cobas e Usb hanno dovuto mollare: al garante degli scioperi hanno comunicato che faranno due giorni di sciopero ma non durante gli scrutini.

Corriere 21.5.15
De Mauro: troppi silenzi in questa riforma Ma dico no alle barricate
intervista di Valentina Santarpia

Il «bailamme» sui precari, il «punto debole» dei presidi, e tre «silenzi» che pesano come macigni: è pacato ma severo il giudizio sulla riforma della scuola di Tullio De Mauro, linguista, professore universitario, socio dell’Accademia della Crusca, ex ministro dell’Istruzione e autore di decine di libri.
Cosa pensa della riforma?
«A me pare che il testo che va sotto il nome di Buona Scuola sia preoccupante non tanto per quello che dice, ma per quello che tace».
Quali silenzi preoccupano?
«Il primo è la mancanza di riconoscimento di quello che, sia in alcuni settori particolari come infanzia e primaria, e sia nel complesso, la scuola italiana ha dato e continua a dare a una società che sembra non amarla troppo e che comunque poco ne finanzia le necessità».
A cosa si riferisce?
«Alcuni pezzi della scuola funzionano a un livello straordinario. Ci sono parti di scuola che realizzano la massima inclusione: il 100% delle bambine e dei bambini iscritti in prima elementare raggiunge la licenza elementare, e i più alti livello di rendimento nei test internazionali».
Il ddl non ne tiene conto?
«A mio avviso non si tratta solo di mancato riconoscimento, ma di mancata conoscenza di quelle parti della scuola che fanno e danno. Gli ispiratori del premier hanno l’aria di dire: “Ora arriviamo noi e sistemiamo tutto”».
Qual è il secondo silenzio?
«Non mi sembra che sia presente in questo progetto ciò che ha animato e deve animare la scuola italiana, e cioè il richiamo alla funzione di organo costituzionale della scuola e quindi dell’impegno della Repubblica (Stato, Comune, enti pubblici) a garantire a tutti e tutte l’istruzione: potenziando quello che c’è, facendo sì che avvenga nelle medie e nelle superiori ciò che è già stato fatto per le elementari: soldi e formazione per gli insegnanti».
La terza omissione?
«La scuola lavora in salita in una società che, come appare dalle prove internazionali dell’Ocse, è tra le più dealfabetizzate del mondo, insieme a quella spagnola: tra il 70 e l’80% della popolazione adulta uscita dalla scuola anche con livelli alti di competenze, perde queste competenze molto presto, soprattutto se non lavora».
Dove accade?
«La recente indagine dell’Ocse ha qualcosa di preoccupante e interessante allo stesso tempo: il fenomeno della dealfabetizzazione colpisce in percentuali rilevanti Paesi tra i più svariati del mondo, anche Finlandia, Corea, Giappone, con sistemi di istruzione esemplari. Il problema dell’istruzione degli adulti è un problema generale di cui la scuola dovrebbe tenere conto. Invece è completamente ignorato».
Il preside sceriffo allora è un falso problema?
«Non mi troverà felice avere un preside che dopo tre anni mi può dire di andar via: soprattutto se sono un professore di algebra e lui non sa fare 2 più 2. È un punto debole, ma secondario: non è eliminandolo che la riforma funziona».
E la battaglia sui precari?
«Un altro punto debole. Non si sa bene come questi 100 mila verranno assunti, su quali cattedre, con quali meccanismi. È un bailamme enorme allo stato attuale, che avrebbero dovuto definire mesi fa: è chiaro che c’è un ricatto governativo».
Come dicono i sindacati?
«Sì, ma anche i sindacati dovrebbero mettere da parte le barricate. Bisognerebbe fermarsi, studiare e mettere a punto un intervento ex novo sull’istruzione. Ma temo che questa strategia non trovi ascolto».
Sembra di no, Renzi «va come un treno». E i ragazzi?
«Il mio parlare pomposamente di ruolo costituzionale della scuola è proprio quello di Piero Calamandrei: è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi, quelli che vanno a scuola e quelli che non ci vanno».
Cosa serve agli studenti?
«Solo imparare a scrivere, leggere, e far di conto, ai livelli sempre più alti che il processo di istruzione richiede».

Repubblica 21.5.15
Docenti di sostegnoI professori di Serie B
di Adriano Sofri

NELL’ESPRESSIONE “ Insegnante di sostegno”, c’è un’involontaria minorità, come di qualcuno che stia di rincalzo, aspettando di esser chiamato all’occorrenza al fianco di ragazzi a loro volta certificati da una minorità.
AL contrario — sorpresa — l’insegnante di sostegno è un insegnante che ha una specializzazione in più, grazie alla quale può scegliere se insegnare la propria materia o fare l’insegnante di sostegno. L’altra sorpresa è che la normativa italiana sull’integrazione scolastica dei ragazzi con disabilità è ammirata e studiata da esperti di tutto il mondo. Le sorprese finiscono qui. Ora, la “Buona Scuola” prevede per il sostegno una delega (art.21) per una riforma che si vuole epocale affidata a decreti governativi entro i prossimi 18 mesi. Nel questionario preliminare alla BS della riforma del sostegno non si faceva parola. C’è però una proposta di legge firmata con altri dal sottosegretario Faraone e sostenuta da alcune associazioni. Essa vuole offrire agli insegnanti delle materie, oberati da classi sovraffollate e burocrazia, più formazione sulle disabilità, com’è giusto, perché non deleghino troppo al sostegno. Tuttavia la loro riforma preoccupa molti genitori, insegnanti e pedagogisti, perché mira a separare gli insegnanti di sostegno da quelli delle materie. Faraone ritiene che il sostegno venga spesso usato come una scorciatoia per entrare in ruolo e poi passare alla propria materia: dunque andrebbero forzati fin dall’inizio a una scelta irreversibile. Viene da obiettare che un insegnante che abbia lavorato sul sostegno e passi alla sua materia, si rivelerà comunque un insegnante migliore. E se l’insegnante di sostegno scopre di non farcela, di mancare di idee e stimoli, è meglio che possa cambiare, passando alla sua materia, piuttosto che restare nel sostegno per obbligo normativo. In realtà già oggi il passaggio si può fare solo dopo 5 anni di ruolo nel sostegno. Piuttosto, le ragioni per cui i ragazzi cambiano spesso l’insegnante di sostegno sono i ritardi burocratici, la precarietà e i tagli: l’organico di sostegno è inadeguato, e quando, a stagione avanzata, arrivano dei precari (che non vuol dire affatto meno capaci) estratti dal fondo della graduatoria, l’anno dopo non riusciranno a tornare.
Ancora, secondo Faraone, il futuro personale di sostegno dovrà essere formato specificamente sulle singole patologie. Ma come agirà questa “specializzazione”? Lo specializzato dovrà poi viaggiare da una scuola all’altra in cerca di una ragazza o un ragazzo con la patologia pertinente? E come si concilieranno eventuali metodi didattici specifici per la sua patologia con il fatto che il ragazzo deve essere incluso nella classe? E non può risultarne una medicalizzazione, e che di fatto gli esperti itineranti appartengano più all’ambito sanitario che a quello educativo? C’è infatti un criterio irrinunciabile: che nessun essere umano è riducibile a una propria patologia. E la patologia dei ragazzi disabili non è la loro caratteristica più importante, e tanto meno l’unica. Genitori e insegnanti sanno per esperienza — il sottosegretario Faraone è fra loro — che la diagnosi dice solo una piccolissima parte di ciò che c’è da sapere. Due studenti con la stessa diagnosi possono essere enormemente diversi. Lo stesso ragazzo può cambiare moltissimo secondo il contesto, e anche semplicemente con il tempo e con la crescita. Certo, molto dipende dalla patologia. Probabilmente ci sono patologie per le quali disporre anche di un esperto sarebbe molto positivo. Per alcune condizioni, per esempio la sordità, esistono già figure come gli assistenti per la comunicazione.
Ma molti ragazzi, se affiancati da un insegnante di sostegno, sono in grado di seguire una programmazione equivamolti lente a quella della classe, conquistando un diploma con pieno valore legale. È dubbio che sarebbe per loro positiva una riforma che separi così nettamente gli insegnanti di sostegno da quelli delle materie. Daniela Boscolo, già insegnante di sostegno e oggi docente dei futuri insegnanti di sostegno a Padova, ha ricevuto una fama improvvisa (e provvisoria, dice) dopo che la Fondazione Varkey l’ha inserita fra i “50 migliori insegnanti del mondo”. In una lettera aperta al governo ha scritto: «La disabilità non è la persona, un ragazzo con sindrome di down o autistica non è la sindrome stessa. Ho avuto ragazzi con sindrome down o autistici e tutti completamente diversi… Noi siamo docenti, la scuola non è un ospedale né un centro diurno come qualcuno vorrebbe diventasse, con l’insegnante specializzato trasformato in una specie di balia con l’unico compito di contenere la persona con disabilità».
Nel 2010 fu votata una legge (170) che riduceva il sostegno ai ragazzi con “Disturbi Specifici dell’Apprendimento”, come la frequente dislessia, in base al principio che debbano occuparsene gli insegnanti delle classi. Molti genitori non furono contrari perché ritennero che non avere più il sostegno liberasse i figli da una specie di stigma. (Avere il sostegno non dovrebbe essere uno stigma mai, e succede anche che persone singolarmente intelligenti abbiano il sostegno per i motivi più vari). Gli insegnanti devono stilare e seguire per ogni alunno un piano e materiali didattici personalizzati: succede che non ce la facciano. Così per la Direttiva del 2012 per i ragazzi con “Bisogni Educativi Speciali” (linguistici, economici, sanitari, famigliari ecc.) come il “Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività”, gli iperattivi, che a volte faticano a star fermi e zitti e concentrati in classe. Boscolo: «Nel formare le classi, è prassi comune mettere il ragazzino con Dsa o altro Bes in classe con un compagno certificato in modo che ci sia il docente specializzato, l’unico formato, che li possa seguire ». (Tutte queste sigle e acronimi, H, Dsa, Bes, Adhd, sono frutto di benvenute eufemizzazioni e di esigenze scientifiche, ma anche di una impellente burocratizzazione, che sostituisce la compilazione di moduli al buon senso e alla responsabilità degli insegnanti, oltre che alla cura per l’insegnamento delle materie).
È noto che le leggi hanno bisogno di uniformare le condizioni cui si applicano. Una legge che si proponga di fare degli insegnanti buoni rischia di rendere la vita difficile agli insegnanti migliori. (Senza dire delle leggi che mirano soprattutto a tagliare i costi). C’è, fra le tante persone cui la sorte o la vocazione ha messo addosso questi problemi, una discussione appassionatissima, com’è facile immaginare. Ma non arriva ad affiorare fino al livello della generale opinione pubblica. Peccato.

Corriere 21.5.15
Opposizioni appese alle regionali e all’economia
C’ è qualcosa di stanco, nel modo in cui la minoranza del partito fa l’opposizione a Matteo Renzi
di Massimo Franco

C’ è qualcosa di stanco, nel modo in cui la minoranza del partito fa l’opposizione a Matteo Renzi. Si assiste ad un canovaccio scontato, con numeri parlamentari che confermano una fronda in realtà meno corposa di quanto si potrebbe immaginare: quella emersa ieri sulla riforma della scuola è l’ultimo esempio. In parallelo, si invoca un’urgenza per chiarire identità e strategia del Pd, che però viene rinviata a dopo le elezioni regionali di fine maggio. Segno che si tratta di urgenza relativa; o comunque, che prima di trattare col premier i suoi avversari aspettano il voto e sperano in una vittoria risicata.
Ma è difficile che il governo esca sconfitto da quell’appuntamento. Il centrodestra versa in condizioni pietose, soprattutto Forza Italia. E, nonostante le tensioni a sinistra, e i sondaggi che danno il Pd in leggera flessione, le distanze con gli avversari rimangono nette. Renzi confida almeno in un 5 a 2 che gli consentirebbe di zittire i suoi critici e andare avanti. Anche se sa bene che la sfida vera non è quella. Si concentra sull’economia, sulla capacità di non pagare un prezzo troppo alto alla questione del buco delle pensioni e alla riforma scolastica.
L’insistenza di Silvio Berlusconi, ma anche del Movimento 5 Stelle e della Lega su un governo che non riesce ad abbassare le tasse, cerca di intercettare un malessere diffuso. Idem il martellamento sui rimborsi ai pensionati, con l’accusa di «prenderli in giro»; e di avere presentato il decreto che contiene l’ una tantum senza averlo nemmeno consegnato al Quirinale. «Questo governo ha aumentato la pressione fiscale. Con il mio esecutivo era arrivata a meno del 40 percento, oggi è oltre», ricorda Berlusconi, dimenticando però di avere portato l’Italia sull’orlo del baratro finanziario nel 2011.
Renzi può ribattere presentandosi come il premier che finalmente «ha fatto le cose»; ed è riuscito, così sostiene, a piegare l’Europa ad un’agenda economica che non prevede più solo misure di austerità ma anche per la crescita. E tende a dimostrare che anche gli inciampi più eclatanti non nascono da questa maggioranza, ma dagli errori del passato: nel caso della sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni, dalla riforma fatta dal governo Monti e firmata dal suo ministro Elsa Fornero.
Rimane il fatto che l’ una tantum data a una parte dei pensionati danneggiati alimenta lo scontento. Evita «punizioni» da parte dell’Ue nei confronti dell’Italia, ma impedisce anche di accelerare la ripresa. Nei prossimi dieci giorni, Renzi dovrà convincere gli elettori che non si poteva restituire tutto. Il rimborso totale, ha spiegato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, «avrebbe comportato una spesa in più pari a circa 17,6 miliardi». Insomma, sarebbero saltati i conti. Bisogna capire se basterà questo a placare lo scontento cavalcato dagli avversari.

Repubblica 21.5.15
L’ira del premier: “La minoranza vuole solo farmi cadere”
di Francesco Bei, Goffredo De Marchis

ROMA La scuola ormai c’entra poco, la posta in gioco — per entrambi i fronti — è tutta politica: la riconquista del Pd per i nostalgici della Ditta, la definitiva renzianizzazione del partito per il capo del governo. Il luogo dello scontro sarà palazzo Madama, dove i 23 senatori della minoranza, se restassero compatti, potrebbero in teoria mandare agli archivi la Buona scuola. Renzi è furente per quanto accaduto ieri in aula. Certo, i 38 dissidenti dell’Italicum si sono ridotti a 28 (29 con la Bindi), ma la ferita brucia lo stesso: «Gli siamo venuti incontro, abbiamo accettato molte modifiche, abbiamo persino ritirato l’articolo sul 5 per mille. E non hanno votato lo stesso. È evidente che puntano ad altro».
Gli occhi sono fissi sul Senato, è lì che i ribelli vogliono consumare fino in fondo la loro rivincita. Tanto più se le regionali dovessero risolversi con la perdita della Liguria e con un arretramento del Pd in termini di voti assoluti per via dell’astensionismo record. Perché è lì che la maggioranza è in bilico. E il dissenso appare più solido che a Montecitorio. A guidare la pattuglia dei ribelli ci sono i tre civatiani — Mineo, Ricchiuti e Tocci — e bersaniani irriducibili come Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca. Così la strategia di palazzo Chigi prevede anzitutto di assottigliare e dividere il blocco della minoranza. Separando chi punta realmente a migliorare il testo da chi, invece, «persegue solo l’obiettivo di far cadere il governo costruendo un partito dentro il partito». Il malumore dei renziani è a livelli di guardia. «Dopo il voto alle regionali - si sfoga Edoardo Fanucci, renziano della primissima ora - non è più prescindibile un chiarimento tra di noi. Non parliamo di Costituzione o di legge elettorale. Ogni provvedimento dell’esecutivo viene ostacolato da una corrente. Non può durare a lungo». Le contromisure al Senato sono già state studiate. Si punta anzitutto su quella parte di Area riformista interessata a consolidare un rapporto con il premier. «Claudio Martini è una persona autorevole - spiega Roberto Rampi, uno degli esponenti del- la corrente di mezzo tra sinistra e renziani - e può convincere molti a votare a favore se il testo sarà modificato. Alla fine scommetto che di quei 23 ne rimarranno al massimo 8». Per separare gli “irriducibili” dai “ragionevoli” Renzi ha già pronto un pacchetto di modifiche, discusse nei giorni scorsi da Matteo Orfini e Lorenzo Guerini con i sindacati. Compresa la Cgil. Un tris di emendamenti che il presidente del Consiglio si è tenuto nella manica per gettarli sul tavolo verde di palazzo Madama: saranno previsti criteri oggettivi per assegnare i premi - un tesoretto da 200 milioni - ai professori più meritevoli in modo da attenuare la discrezionalità dei presidi, e gli stessi presidi avranno meno libertà nella scelta degli insegnati; infine qualche ulteriore apertura ci sarà per una delle tante categorie di precari rimasti esclusi dall’infornata dei 160 mila.
E tuttavia, dopo tutte le mediazioni, esauriti tutti i tentativi di convincimento e se il dissenso dovesse restare consistente, molti renziani non escludono nemmeno di usare l’arma finale, quella fin qui smentita in maniera ufficiale: la fiducia. Il clima in effetti è già surriscaldato. Enza Bruno Bossio e Nico Stumpo, che ieri non hanno votato, avvertono: «In uno Stato democratico nessuna riforma può farsi senza il consenso». Anche da parte dei renziani la tensione si tocca con mano. E lo dimostra la sfuriata fatta ieri in aula dal solitamente diplomatico Lorenzo Guerini, vicesegretario Pd, a Gianni Cuperlo e agli altri della minoranza che chiedevano di intervenire, in sede di dichiarazione di voto, in dissenso dal gruppo. «Adesso basta, è inaccettabile che ogni passaggio qua dentro sia segnato da una dichiarazione di corrente!». Oltretutto gli esponenti della maggioranza accusano gli oppositori dem di essere venuti meno ai patti. «C’era un’intesa - rivela Anna Ascani -, un gentlemen’s agreement sottoscritto tra noi e loro. Se noi avessimo ritirato l’articolo sul 5X1000 loro avrebbero votato il provvedimento. Ma non l’hanno fatto: la verità è che or- mai non riescono a mantenere più nulla».
I renziani ritengono che la scelta di non votare la riforma sia stata presa proprio per coprire le divisioni interne alla minoranza fra dialoganti e duri. I primi favorevoli a sottolineare le modifiche ottenute nella discussione parlamentare, i secondi che puntavano a mettere in difficoltà il governo. Qualche strascico della discussione interna lo si è visto anche al momento del voto, quando un bersaniano come Enzo Lattuca, ad esempio, alla fine ha optato per il sì differenziandosi dagli altri 28. Pur firmando più tardi la lettera della minoranza ai senatori per spronarli alla pugna. Sono segnali di una sofferenza che lasciano intravedere sviluppi più grandi dopo le regionali. Lo stesso Lattuca, sospirando, ammette che esiste «un rischio di assimilazione progressiva della minoranza da parte di Renzi. Soprattutto se il premier continuerà a restare così sulla cresta dell’onda».

Repubblica 21.5.15
Fassina (PD)
“Dovrò uscire dal partito se a Palazzo Madama non sarà modificata davvero”
I voti alle europee ricevuti su aspettative indefinite e ambigue su lavoro o scuola
La mia uscita? Tra il popolo dem e il partito di Renzi, scelgo il primo
intervista di Giovanna Casadio

ROMA «Veramente in piazza è stato contestato il Pd, non il sottoscritto». Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, è appena tornato dalla piazza in aula a Montecitorio. Non vota la riforma della scuola.
Fassina, i manifestanti le hanno gridato “lascia il Pd”. È arrivato il momento?
«Il passaggio ora al Senato del disegno di legge sulla scuola è decisivo per verificare se è reversibile lo spostamento del Pd dopo la svolta liberista sul lavoro e il segno plebiscitario sulla democrazia».
Rimanda la sua uscita. Ma è più fuori che dentro?
«Tra il popolo dem — abbandonato da un Pd geneticamente modificato — e il partito di Renzi, scelgo il primo».
Perché lega il suo addio al Pd alla riforma della scuola? La giudica una riforma di destra?
«Bisogna essere cauti nell’uso del termine riforma che ha perso il significato progressista avuto in una parte del Novecento. Temo che parlare di riforma della scuola sia improprio come lo è stato per la legge Fornero sulle pensioni, per la legge sul mercato del lavoro di Sacconi. Il ddl scuola, concentrando i poteri di chiamata dei docenti sul dirigente scolastico, incide sulla libertà di insegnamento. Senza un piano pluriennale di assunzione degli insegnati precari riproduce il dramma degli esodati».
Spera sia modificato al Senato?
«Assolutamente sì. Nonostante la contrarietà netta di alcuni di noi, per organizzare l’area del dissenso, in più di 30 non abbiamo partecipato al voto. Abbiamo rafforzato la battaglia al Senato unendo la minoranza dem».
Quali cambiamenti si aspetta?
«Su tre punti: cancellare i poteri dei presidi di chiamare e rimuovere dall’incarico i docenti; introdurre un piano pluriennale di assunzione degli insegnanti precari connesso con le uscite di pensionamento quindi senza oneri aggiuntivi; eliminare la detrazione fiscale per le secondarie superiori private».
Però potrebbe avere l’ok con l’appoggio di Verdini e company?
«Deve passare con i voti di tutto il Pd e dell’attuale maggioranza. Sarebbe altrimenti un fatto politico grave».
Il suo è un ultimatum?
«È una presa d’atto. Il programma elettorale votato da 8,6 milioni di elettori può essere archiviato da 2 milioni di voti al congresso del Pd? Il 40% di voti raccolti alle elezioni europee sono stati ricevuti dal Pd su aspettative indefinite e ambigue senza riferimenti specifici su lavoro o scuola. La contraddizione tra il mandato elettorale che ci è stato dato e il programma del governo Renzi, senza legittimazione elettorale, è questione rilevante di democrazia o capriccio del sottoscritto? Una parte del popolo dem si è allontanato, il Pd raccoglie sempre di più i voti dell’establishment e occupa lo spazio presidiato in Europa dalle destre merkeliane assenti in Italia».

Il Sole 21.5.15
Minoranza in trincea, rischio Senato per il premier
A Palazzo Madama dove la soglia minima è di 161 la maggioranza può contare su 175 senatori salvo defezioni
di Emilia Patta

ROMA La riforma della scuola passa con la maggioranza assoluta a Montecitorio, non un voto in più non un voto in meno. «Trecentosedici sì è la maggioranza assoluta, per cui diciamo che è andato bene anche il voto sulla riforma della scuola», commenta la ministra per le Riforme e per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Che per svelenire il clima interno al Pd apre anche a possibili modifiche sui punti controversi nel prossimo passaggio in Senato: «Adesso c’è un altro passaggio significativo al Senato, quindi riaffronteremo alcuni punti che sappiamo essere ancora discussi», assicura Boschi. Eppure la tranquillità di facciata nasconde un vero e proprio allarme tra i renziani per il passaggio in Senato. Era infatti dal Jobs Act che una riforma targata Matteo Renzi non aveva un consenso parlamentare così basso alla Camera: 316 furono i sì nel novembre scorso sulla legge delega e 316 sono stati sul Ddl scuola. Due riforme con la R maiuscola che hanno oltre ai numeri altri due comuni denominatori: l’opposizione della minoranza bersanian-cuperliana del Pd e il successivo approdo a Palazzo Madama. Dove, com’è noto, la maggioranza si regge su una decina di voti di scarto e la sinistra del Pd è particolarmente compatta e agguerrita (in 24 firmarono il documento contro le riforme costituzionali). Per questo, al di là dei toni concilianti, tra i parlamentari renziani non si esclude la fiducia sulla “Buona Scuola” a Palazzo Madama. Anche se da Palazzo Chigi bocciano «voci» e «illazioni» e sottolineano che nessuno pensa alla fiducia sulla scuola.
Conti alla mano, nel Pd non hanno votato in segno di dissenso in 28 (40 nel complesso, ma molti erano in missione o assenti giustificati): un po’ meno dei 36 che non hanno votato la fiducia sull’Italicum (Enrico Letta, ad esempio, ieri ha votato) ma comunque un numero considerevole dentro il quale c’è un pezzo di Pd: gli ex segretari Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, l’ex capogruppo Roberto Speranza, l’ex sfidante alle primarie del Pd Gianni Cuperlo e personalità dell’era bersaniana come Alfredo D’Attorre, Nico Stumpo, Davide Zoggia e il sempre più in uscita Stefano Fassina. Insomma, nonostante i numeri si siano assottigliati rispetto al voto sull’Italicum, la riforma della scuola certifica la frattura tra i dem. «È la prova di un’opposizione a prescindere, un Vietnam strumentale e non di merito», sottolineano i renziani. Il riferimento è alla lettera dialogante con cui la sinistra (e tra le firme ce n’è anche qualcuna di chi ieri ha votato sì) riconosce i passi avanti fatti alla Camera con le modifiche introdotte in commissione e chiama i senatori ad impegnarsi per correttivi in 3 punti. Perché sulle due nuove modifiche chieste dalla minoranza per rivedere la chiamata diretta del preside (punto qualificante per Renzi della sua riforma) e sulle assunzioni per i precari di seconda fascia (qui è questione di bilancio pubblico) è chiaro che la porta del dialogo è chiusa. Ma l’eventuale resa dei conti con la sinistra del partito sulla scuola, e non solo, è a questo punto rimandata a dopo le regionali del 31 maggio. È evidente che l’esito del voto, con particolare occhio alla Liguria in bilico, influenzerà il comportamento di Renzi. Che comunque rivendica quanto fatto fin qui, dal Jobs Act all’Italicum alla responsabilità civile dei magistrati. Anche se non tutti sono d’accordo nel merito, ragiona il premier, «nessuno può negare che finalmente in Italia le cose si fanno, la politica ha ripreso slancio e il tempo delle chiacchiere è finito».
Intanto già da oggi l’incubo Senato comincerà a prendere forma, con l’arrivo del Ddl scuola in commissione Istruzione a Palazzo Madama: tre gli esponenti della minoranza dem (Martini, Mineo e Tocci), decisivi.

Corriere 21.5.15
Il premier: «Il dissenso? Asciugato». E scommette sui numeri al Senato
Secondo il leader il dialogo ha funzionato. Il timore per l’astensionismo alle urne
di Maria Teresa Meli

Il voto di ieri, a Montecitorio, ha fatto registrare un numero minore di dissensi nel Pd rispetto all’Italicum. Il particolare non è sfuggito a Renzi, che ha confidato ai collaboratori: «L’opposizione interna si è asciugata. L’interlocuzione funziona».

ROMA L’annuncio della minoranza interna che promette di riprendere la battaglia sulla riforma della scuola al Senato non sembra preoccupare troppo Matteo Renzi.
L’idea del premier è quella di concedere due, tre modifiche in Commissione — di cui si è già discusso in questi giorni — e poi di non mettere necessariamente la fiducia sul provvedimento, che tornerà alla Camera.
Una decisione ufficiale su come agire ancora non c’è e non verrà comunicata adesso, anche se la minoranza, benché Palazzo Chigi smentisca, dà per scontato il ricorso al voto di fiducia.
Nessun eccesso di preoccupazione da parte di Renzi, comunque, anche perché il voto di ieri, a Montecitorio, ha fatto registrare un numero minore di dissensi rispetto all’Italicum. Particolare, questo, che non poteva certamente sfuggire al premier, il quale ha confidato ai collaboratori: «L’opposizione si è asciugata. L’interlocuzione funziona».
A preoccupare veramente Renzi sono invece i dati dell’affluenza alle urne. Se il sei a uno si dà per molto probabile,benché per scaramanzia non si dica troppo apertamente, sono altri i numeri che impensieriscono Palazzo Chigi. E riguardano la percentuale dei votanti. Un dato basso verrebbe interpretato come un primo segno di disaffezione al governo Renzi. A questo va aggiunto il timore che Raffaella Paita, anche in caso di vittoria, non raggiunga in Liguria il quorum necessario per governare da sola e sia costretta a chiedere aiuto al Nuovo centrodestra per formare la sua giunta perché Luca Pastorino ha già fatto sapere che lui non è interessato alla cosa.
Non è un caso, dunque, se ieri uno degli oppositori interni del premier, Vannino Chiti, abbia dichiarato: «La questione principale è la partecipazione alle regionali. Non funziona una democrazia con una bassa presenza di cittadini alle elezioni».
Comunque, anche un’estendersi dell’astensionismo non fermerà la corsa del presidente del Consiglio, che sembra molto determinato ad andare avanti lungo la sua strada: «Io mi sono assunto la responsabilità di governare il Paese e di decidere».
E di nuove decisioni per il futuro, Renzi ne ha in mente molte. Meno decreti legge, innanzitutto. E più decreti attuativi. «Dobbiamo semplificare il fisco — spiega — velocizzare i tribunali e mandare definitivamente in porto la riforma della Pubblica amministrazione. Io credo che se mettiamo ordine in tutto questo, in Europa non ci fermerà nessuno».
Ma il premier, a quanto pare, non ha rinunciato all’idea di affrontare pure la pratica della tv di Stato: «Naturalmente ora dovremo procedere anche con la Rai».
Questo per quanto riguarda i fronti esterni. Poi c’è quello interno, del Pd. La minoranza non sembra avere grande voglia di fare i bagagli e di uscire dal partito. Stefano Fassina sembra aver posticipato il suo addio a dopo l’approvazione della riforma della scuola al Senato. Michela Marzano prima di dare le dimissioni da deputata, annunciate con grande anticipo, aspetterà l’approvazione delle unioni civili.
Gli altri vogliono restare. E sono sempre più spaccati tra chi cerca il confronto con Renzi e chi vuole la guerriglia. A generare questa divisione, due motivi fondamentali. Il primo lo spiega il presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano, che fa parte dell’ala dialogante della minoranza: «Non ci si può muovere come un partito nel partito, non votando mai i provvedimenti del governo, allora si esce... Non capisco Speranza, non è da lui comportarsi così».
Già, «non è da lui», lo dicono in molti. Ma la verità è che l’ala più oltranzista della minoranza è tornata, di fatto, a essere guidata da Pier Luigi Bersani e dai suoi uomini (Maurizio Migliavacca). Loro aspettano al varco Renzi su un altro fronte: la legge sui partiti, per dare seguito all’articolo 49 della Costituzione, e, soprattutto, la revisione, elaborata dal tandem Lorenzo Guerini e Matteo Orfini della forma partito, che riguarda il Pd e il delicato nodo delle nuove regole delle primarie.

La Stampa 21.5.15
E Renzi in versione mediatore
prepara un vertice con i sindacati
L’incontro decisivo avverrà prima del voto finale
di Fabio Martini

Matteo Renzi deciderà solo all’ultimo momento se entrare anche lui nella Sala Verde. Ma sulla trattativa con i sindacati la decisione più importante, il premier l’ha già presa da diversi giorni. Anche se non ancora formalizzata, la decisione è questa: nella prima settimana di giugno, dopo l’esame del ddl scuola da parte delle Commissioni del Senato e poco prima del decisivo passaggio in aula, le porte di palazzo Chigi si riapriranno ai leader del tre sindacati confederali per un confronto finale nel quale formalizzare eventuali, ulteriori modifiche. Ma la riapertura della Sala Verde (proverbiale luogo della concertazione), anche a Susanna Camusso è un segnale importante: la conferma che Renzi sulla scuola ha cambiato approccio rispetto alle ultime battaglie. È lui stesso ad ammetterlo: «Su questo tema non abbiamo fatto come con la legge elettorale, quando abbiamo detto “prendere o lasciare”, sulla scuola invece abbiamo ripetuto: “parliamone e decidiamo insieme”». Arrivando a pronunciare, a Rtl 102,5, queste testuali parole: «Chi se ne frega delle idee di Renzi! Se un’idea va cambiata, bisogna dimostrare che siamo affezionati alla scuola, non alle nostre idee».
Renzi per una volta si dimostra prudente, trattativista e comunque lascia aperta la strada a modifiche da parte del Senato (con successivo passaggio-bis alla Camera) per due ragioni, entrambe incoffessabili. La prima: il presidente del Consiglio ha preso atto che sulla riforma della scuola, i sindacati sono riusciti ad interpretare il “sentiment” nettamente prevalente tra gli insegnanti, dimostrando di essere altamente rappresentativi di una categoria con una forte influenza sociale (sui genitori). E d’altra parte la cronicizzazione del dissenso da parte della minoranza Pd (che ieri in gran parte non ha partecipato alla votazione finale alla Camera sul ddl-scuola) rende a rischio il passaggio al Senato. I senatori del Pd stabilmente schierati con la minoranza sono ventidue e se anche soltanto quindici di loro votassero a favore di emendamenti «mirati» contro il provvedimento, potrebbero cambiare la natura della riforma.
Tanto vale, si ragiona a palazzo Chigi, bruciare sul tempo i dissidenti e cambiare ancora qualcosa nel testo. Ma senza perdere la faccia. Ecco perché Renzi sottolinea le numerose modifiche già apportate al testo iniziale della maggioranza - sui poteri dei presidi, sul 5 per mille, ma non solo. Ma per decidere quanto aprire, Renzi aspetta il risultato delle elezioni Regionali del 31 maggio. Ben sapendo che anche nel fronte sindacale si stanno aprendo delle crepe. La Cgil ha indetto, ma senza la Cisl, uno sciopero di un’ora nei primi due giorni di scrutinio, ma ha rinunciato al blocco vero e proprio: «Sarebbe stato violare il Dna della Cgil - dice Giuliano Cazzola, dirigente ai tempi di Lama e Trentin - perché colpire utenze “sensibili” come ragazzi e le famiglie è sempre stato considerato un tabù intoccabile in tutte le Cgil».

Republica 21.5.15
Toscana
Rossi sfida il fuoco amico della sinistra e la Lega sogna di portarlo al ballottaggio
Il governatore uscente subisce lo strappo degli alleati di Sel, nell’unica regione dove c’è il doppio turno se nessuno arriva al 40%.
“Fanno il test di antirenzismo. Non li seguo. E non capisco i dem contrari alle riforme”
di Sebastiano Messina

FIRENZE Nella terra del renzismo, l’uomo che stavolta si gioca tutto è un ex comunista, anzi uno che si definisce orgogliosamente «un comunista democratico di stampo berlingueriano», e alla domanda se sia un alleato o un avversario del premier risponde così: «Io non sono renziano, né filorenziano, né antirenziano. Sono un rossiano. Appartengo a una corrente di cui sono l’unico iscritto».
A 56 anni, Enrico Rossi si ritrova a combattere la sua campagna elettorale più difficile e più insidiosa della sua carriera politica: non contro i sei avversari che gli contendono la poltrona di governatore della Toscana — nessuno dei quali può sperare di sorpassare un Pd che l’anno scorso raccolse il 56,3 per cento — ma contro una percentuale da superare a tutti i costi: 40 per cento. Lo spettro del ballottaggio si aggira infatti per la Toscana, grazie a una legge elettorale (il “Toscanellum”) che prevede qui, unica regione in tutto il Paese, un secondo turno se nessuno supera al primo l’asticella del 40 per cento. Un secondo turno che potrebbe vedere coalizzati tutti gli antirenziani, di destra e di sinistra.
Intendiamoci: i sondaggi sono rassicuranti, per il Pd, e anche i precedenti non inducono al panico. Cinque anni fa Rossi fu eletto presidente con una percentuale quasi bulgara: 59,7 per cento. Però allora il Pd era alleato con Sel e con Rifondazione, che stavolta hanno deciso di sfidarlo. Schierando contro di lui Tommaso Fattori, quarantenne ex portavoce del Social Forum di Agnoletto, che spiega così questo divorzio dell’ultimo minuto: «Non potevamo allearci con un Pd che ha subìto una profonda mutazione genetica». Rossi se n’è fatto una ragione, ma un sassolino dalla scarpa se lo toglie: «La verità è che gli amici e compagni della sinistra estrema si sono fatti tentare dall’idea di provare qui la consistenza dell’area tsiprasiana di impronta antirenziana, come se non avessero governato con me fino all’ultimo giorno…».
Gli altri cinque sfidanti invece non erano in giunta, e dunque ora lo attaccano su due fronti. C’è chi accusa il governatore di aver fatto troppo, e chi gli rinfaccia di aver fatto troppo poco. Il berlusconiano Stefano Mugnai, 45 anni, gli rimprovera entrambe le cose: «Ha varato una legge sul paesaggio che ricorda i piani quinquennali dell’Unione sovietica. E intanto continua a promettere un’opera che non realizza mai, la “dorsale tirrenica”: l’autostrada finisce ancora a Civitavecchia e ricomincia a Rosignano». Per il grillino Giacomo Giannarelli, 36 anni, “energy manager” con occhiali e barbetta, Rossi invece ha fatto troppo, per esempio con il suo piano rifiuti: «Se vinciamo noi, chiuderemo i sette inceneritori previsti. Bloccheremo la nuova pista dell’aeroporto di Peretola. Ci opporremo al tunnel per la Tav. E impediremo la costruzione di nuove autostrade. Prima bisogna mettere in sicurezza l’esistente».
Il governatore sa perfettamente di essere al centro del mirino. Vogliono colpire lui per colpire Renzi. Claudio Borghi, il quarantenne milanese catapultato da Salvini nella campagna toscana, lo dice chiaro e tondo: «Vogliamo battere Renzi nella sua terra per provocare un terremoto che faccia cadere il governo. Ci riusciremo? Chissà. Io sono convinto di avere in tasca il secondo posto. Poi se andiamo al ballottaggio, non mettiamo limiti alla provvidenza…».
Così tocca a Rossi difendere, oltre alla sua, anche la bandiera di Palazzo Chigi. Singolare destino, per l’uomo che nel 2010 venne incaricato da Bersani di rispondere all’intervista a Repubblica con cui Renzi lanciò la «rottamazione». Lui che a 32 anni era diventato sindaco di Pontedera, a 41 assessore regionale alla Sanità e a 51 presidente della Regione, doveva controbattere al giovane sindaco di Firenze che aveva osato invocare il pensionamento di tutto il vecchio gruppo dirigente. Lui lo fece, ma a modo suo: «Ha posto questioni al 70 per cento sbagliate ma per il 30 per cento giuste» (e Bersani, raccontano, non ne fu affatto entusiasta).
Con l’ex sindaco — che lui definì «un blairiano moderato» — il governatore ha sempre avuto un rapporto complesso: progetti diversi ma collaborazione leale. Fu Renzi a fare il primo passo, cinque anni fa, quando Rossi si preparava alle primarie. Lo invitò a Palazzo Vecchio, fece apparecchiare la tavola nella sala di Clemente VII, e davanti al grande dipinto vasariano che raffigura la città assediata dai lanzichenecchi di Carlo V gli offrì un piatto di pasta col pomodoro e lo colse di sorpresa: «Io ti appoggerò». L’altro pensò che stesse per chiedergli due o tre assessori, ma si sbagliava: «L’unico assessore che può avere Firenze — gli disse Renzi — è il presidente. E io voglio avere un filo diretto con te». L’indomani, il renziano Federico Gelli rinunciò alle primarie, e tra la Regione e Palazzo Vecchio nacque una convergenza sui fatti che dura ancora («Con Rossi abbiamo un rapporto molto pragmatico di collaborazione piena» assicura il nuovo sindaco, Dario Nardella).
Anche stavolta, è stato il presidente del Consiglio a dichiarare il governatore uscente «il candidato giusto», facendogli saltare le primarie. Rossi non è diventato renziano, ma non si è nemmeno iscritto al partito dei suoi avversari. «Renzi — spiega — sta provando a cambiare l’Italia e io lo sostengo. Mi riconosco poco in questa sinistra che fa muro contro le riforme. Ci vogliono polmoni più ampi per ricostruire una cultura politica della sinistra. Nel Pd, non fuori. Extra ecclesiam, nulla salus ».

Repubblica 21.5.15
Se la donna tira la carretta
La scarsità della domanda e la fragilità delle posizioni ha spinto molte ad affrontare il peso del doppio lavoro
di Chiara Saraceno

LE DONNE italiane hanno mantenuto i, bassi, livelli occupazionali precedenti la crisi, a differenza degli uomini che invece hanno perso centinaia di migliaia di posti di lavoro e sono lontani dal recuperarli nonostante la piccolissima ripresa di questi mesi.
L’effetto di questo andamento opposto, secondo quanto emerge dal rapporto annuale Istat presentato ieri, è stato duplice. Da un lato si è ridotto il gap di genere nei tassi sia di occupazione sia di attività, nonostante non ci sia stato un effettivo miglioramento per le donne, che partivano da una situazione di forte svantaggio. Dall’altro lato è aumentata la percentuale di famiglie in cui l’unico percettore di reddito è una donna: dal 9,6 per cento del 2008 al 12,9 per cento del 2014, pari a circa due milioni e mezzo di famiglie. Il fenomeno è più netto nel Mezzogiorno, dove è più visibile la contestuale diminuzione delle famiglie non di pensionati in cui l’unico percettore di reddito è un uomo, stante la maggiore gravità della perdita occupazionale in quelle regioni.
Come era stato già rilevato nel rapporto annuale dello scorso anno, l’aumento delle famiglie in cui è una donna ad essere l’unica percettrice di reddito da lavoro è l’esito di due diversi fenomeni. Il primo è l’aumento delle famiglie monogenitore e delle donne adulte che vivono da sole. Dal 2008 al 2012 c’è stato un aumento delle separazioni di circa il 5 per cento, nonostante nel 2012 ci sia stata una piccola inversione di tendenza (non ci sono dati più recenti). Il secondo fenomeno è l’aumento delle famiglie in cui quello che era il principale percettore di reddito ha perso il lavoro e la sua compagna è riuscita a mantenere il suo, o se ne è cercato uno per poter far fronte ai bisogni della famiglia.
Già lo scorso anno si segnalava che la crescita delle donne uniche occupate in famiglia riguarda specialmente le madri in coppia, seguite dalle donne in coppia senza figli e dalle madri che vivono sole con i figli. Queste ultime sono le più numerose in termini assoluti, superando il mezzo milione.
A differenza che in altri periodi di congiuntura negativa, le donne non si sono ritirate ancora di più dal mercato del lavoro. Al contrario, vi sono entrate in percentuale maggiore, anche se sempre contenuta, nonostante le difficoltà, sia a trovare una occupazione, sia a conciliarla con le responsabilità famigliari. È un fenomeno che riguarda anche coloro che in circostanze più favorevoli non si sarebbero presentate sul mercato del lavoro perché prive delle necessarie qualifiche o perché sovraccaricate dal lavoro famigliare. In altri termini, proprio la scarsità della domanda e la vulnerabilità delle posizioni lavorative, oltre che dei rapporti di coppia, ha spinto molte donne ad affrontare il peso del doppio lavoro per poter garantire a se stesse e alla propria famiglia un reddito.
Si tratta spesso di redditi modesti, più modesti di quelli guadagnati dagli uomini. Basti pensare che il settore occupazionale femminile che ha tenuto di più è quello dei servizi alla persona, dove sono concentrate anche molte donne straniere: certo un settore non particolarmente ben pagato. È anche aumentato parecchio il part time involontario, ove pure c’è una forte concentrazione femminile. Il gap di genere, quindi, per ora si chiude prevalentemente al ribasso, per un peggioramento delle posizioni degli uomini. Ma la inattesa reazione delle donne alla crisi — condivisa per altro anche dalle donne in altri Paesi — segnala che qualche cosa è cambiato nel comportamento e nelle aspettative delle donne, tra le quali una proporzione crescente ritiene di non potersi più affidare, per la propria sicurezza economica e quella dei figli, esclusivamente alla capacità di guadagno degli uomini, dei propri mariti e compagni.

Corriere dell’Umbria 19.5.15
Bertinotti sempre daccapo
di Leonardo Caponi

Fausto Bertinotti ha scelto Perugia come una delle tappe della presentazione del suo ultimo lavoro, un libro intervista con Roberto Donadoni. Come era prevedibile l’incontro con l’ex leader di Rifondazione comunistache ha avuto, tra gli altri, come interlocutore il parrocchiano del carcere di Perugia e parroco di Santo Spirito, don Saulo, è stata l’occasione per una riflessione politico culturale non banale che, comunque la si voglia giudicare, si staglia con la forza di una visione di largo respiro nella odierna discussione asfittica del giorno per giorno. L’unica considerazione che si può caso mai fare è che l’ex presidente della Camera agisce ormai più come solista che come direttore di orchestra, anche se, molto spesso, ad avere la capacità di anticipare la storia, sono proprio le figure che hanno scelto, per se stessi, l’“isolamento” dai partiti.
Il giudizio che Bertinotti da dell’Europa e del mondo (occidentale) di oggi è di una nettezza drammatica, quasi disperante. Il “liberismo” economico ha ormai conquistato la politica e la cultura e si è imposto come dittatura di una idea i cui cardini sono il “mercato” e l’“impresa”. Ad essi tutto è subordinato, dalla condizione dei lavoratori, alla funzionalità delle istituzioni, al governo dell’informazione, alla umanità dei rapporti sociali e interpersonali. L'autonomia della politica e il potere dei governi è piegato alla funzionalità di un ordine che è presentato e si impone, immutabile e senza alternative, come una nuova legge della natura. La forza di questa oppressione è tale, questo è il nocciolo del discorso di Bertinotti, da rendere illusorio e vano ogni tentativo di cambiare il sistema dall'interno.
La denuncia dei mali del liberismo, a cominciare dalla disoccupazione e dalla povertà in Europa e nel mondo, trova una alta e permanente tribuna nelle parole e nell'azione di Papa Francesco. Bertinotti vede su questo terreno e sul lascito spirituale delle predicazioni di Gesù Cristo e degli scritti di S. Paolo di Tarso, gli spazi per (ri)aprire un dialogo con la Chiesa cattolica.
Non è un caso che la prefazione al libro sia stata chiesta e scritta da un’alta autorità ecclesiastica, il card. Gianfranco Ravasi, anche se appare infondata e una semplice banalizzazione mediatica, una presunta “conversione” cristiana di Bertinotti, presentata come la “resa” dell’ultimo dei comunisti all'ideologia del capitalismo. Bertinotti continua a definirsi “non credente” e il titolo del libro è di per se indicativo, “Sempre daccapo”, a voler testimoniare, nel profondo della sconfitta, la volontà di ricominciare la lotta per un cambiamento sociale.
Farà probabilmente discutere il giudizio di Bertinotti sulla Sinistra attuale e la prospettiva che egli indica per la trasformazione della società. A suo parere sarà non solo possibile, ma necessario, attuarla senza il “Principe” per dirla con Machiavelli o l’”Intellettuale collettivo” con Gramsci; cioè senza il Partito, “appoggiandosi”, per così dire, sui “movimenti”. Questa idea e quella di un approdo sconosciuto verso cui muovere, inteso come una costruzione da definire cammin facendo, sono fascinose, ma si prestano ad obiezioni.
L’intento di “sciogliersi” nei movimenti non è in realtà nuovo. Lo propose alla Federazione giovanile comunista, in pieno '68, l’allora Segretario Achille Occhetto (che rivelò poi in materia una straordinaria versatilità riuscendo a sciogliere il Pci).
Sembra un'idea ricorrente se è stata tentata in questi ultimi anni da varie parti, compresa la Rifondazione Comunista di Bertinotti, con esiti non propriamente incoraggianti, anzi alla fine sostanzialmente fallimentari. Una casa si fa con un muratore e un progetto, almeno di larga massima. Che gli attuali partiti della sinistra siano persi per la causa, è fuori discussione. Ma forse bisognerebbe pensare non solo di abolirli, ma di sostituirli con qualcos’altro.

Corriere 21.5.15
Irlanda
Domani il voto sulle nozze gay in un Paese dove vent’anni fa l’omosessualità era un reato
di Fabio Cavalera

DUBLINO «Il matrimonio gay sta diventando sempre di più l’emblema di una società moderna e l’Irlanda si sta muovendo verso una nuova era». Katherine Zappone è teologa americana ma siede nel Senato di Dublino, è lesbica ed è una delle animatrici della campagna per il «sì» nel referendum di domani che deve ratificare o respingere la legge sui matrimoni gay. Un appuntamento storico.
La Tigre Celtica è sempre stata un fortino del cattolicesimo. Ma le cose sono cambiate. Negli anni Settanta novanta irlandesi su cento dichiaravano di andare a messa almeno una volta alla settimana. Oggi, lo rivela una ricerca dell’Associazione dei Preti cattolici, sono appena 35 su cento.
La Chiesa si è indebolita e il suo messaggio dottrinale non è più il faro di una volta. Ecco perché questa consultazione che ha lo scopo di riscrivere un articolo della Costituzione, consentendo le nozze fra persone dello stesso sesso, potrebbe dare un esito in forte controtendenza rispetto alla storia del passato.
Tom Inglis, professore universitario a Dublino e sociologo, sintetizza: «Il tempo in cui la Chiesa era la coscienza morale dell’Irlanda è chiuso per sempre».
Il dibattito che accompagna le ultime battute referendarie è visibile, intenso, appassionato. I partiti, centrosinistra laburista, centro e centrodestra, sono tutti a favore della legalizzazione (l’hanno già approvata in Parlamento). Il governo pure. Ma ciò che conta è la società e soprattutto lo sono i segnali che da lì arrivano. Se è scontata la partigianeria (per il sì) di moltissimi manager (il capo di Google Ronan Harris: si tratta di rispettare il diritto all’eguaglianza), di scrittori (a cominciare da Roddy Doyle, Colm Tóibín, Catherine Dunne) e di attori (Colin Farrell) lo è assai meno la posizione assunta da alcuni gruppi cattolici e da singoli preti. Ad esempio il sacerdote Iggy O’Donovan che annuncia di votare «nel rispetto della libertà di altri che sono diversi da noi». Sì. E non è una mosca bianca. Padre Sean McDonagh, dell’Associazione dei Preti, spiega che la Chiesa «può riguadagnare una posizione di autorità se si mette al passo del mondo moderno». Oppure l’associazione «Noi siamo la Chiesa» secondo la quale «non si distrugge l’istituzione del matrimonio e della famiglia ma la si rafforza».
Il mondo cattolico irlandese è diviso. E l’istituzione ecclesiale, consapevole di questa frattura, ha preso una posizione ferma ma non condizionante e non ultimativa, più prudente. I vescovi d’Irlanda si sono limitati a scrivere una lettera pastorale alle 1.360 parrocchie, «Il significato del matrimonio», e a predicare durante le funzioni spiegando le ragioni del «no». Il discusso arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, ha invitato persino a usare un linguaggio «delicato e rispettoso» dato che le associazioni più integraliste (Alleanza per la Difesa della Famiglia e del Matrimonio) si sono scatenate con slogan del tipo «approvare il matrimonio gay è come approvare la legge della sharia nel Califfato dell’Isis». Prese di posizione estremiste che non convincono i fedeli, li allontanano.
Sulla crisi della Chiesa nella cattolicissima Irlanda, che nel 1995 approvò il referendum sul divorzio con appena 9.114 voti di scarto (lo 0,56%), pesano gli scandali sulla pedofilia, le vergognose coperture offerte dalle gerarchie ai sacerdoti e alle suore macchiatisi di violenza sui minori, la doppia vita dei «pastori» in spregio degli insegnamenti che offrivano. Pochi hanno dimenticato i casi del vescovo Eamon Casey e del prete Michael Cleary che erano sul palco ad accogliere papa Giovanni Paolo II nel 1979 davanti a un milione di pellegrini. Si scoprì poi che uno aveva avuto un figlio da una donna americana e il secondo ne aveva fatti due con la perpetua.
La cronaca in questi anni ha lasciato un segno profondo nella comunità. L’ha disorientata. Il referendum è il termometro di un’Irlanda cambiata.
Tutti dicono che il matrimonio gay sarà approvato ed entrerà nella Costituzione. Ma è da vedere. Sarà decisivo il voto dei giovani, in grande maggioranza a favore, e delle donne, specie a Dublino, come fu nella consultazione sul divorzio quando fecero pendere la bilancia verso il sì. Per quello che vale, un piccolo indizio lo offre Rita O’Connor, 83 anni, religiosissima, ogni giorno in Chiesa: «Come voterò? Voterò per i gay, non ho proprio nulla contro di loro».

Repubblica 21.5.15
Gli sbarchi e le paure delle infiltrazioni “Ma il pericolo non arriva via mare”
Per ragioni geografiche, l’Italia è terra di transito di jihadisti e foreign fighters. Intelligence e polizia ricordano che chi raggiunge le nostre coste viene subito inserito nella banche dati Europol e cessa perciò di essere invisibile
di Carlo Bonini

ROMA COSA racconta davvero la storia di Abdel Majid Touil? O, detta altrimenti: cosa prova la circostanza che questo giovane marocchino accusato di complicità nella strage del Bardo sia arrivato nel nostro Paese su un barcone soccorso nel canale di Sicilia da un’unità della nostra marina militare il 17 febbraio scorso? C’è spazio insomma perché questa vicenda imponga una rilettura della minaccia islamista al nostro Paese e indichi nel flusso di migranti via mare la nuova falla del nostro sistema di sicurezza nazionale, come pure vorrebbero gli allarmi del Pentagono sulla esplosiva crisi libica e una campagna alimentata ancora negli ultimi giorni oltre che dalla stampa inglese, da esponenti della Lega, del Movimento 5 Stelle e della Destra?
Girate in queste ore a fonti qualificate della nostra intelligence, dell’antiterrorismo (polizia di prevenzione e Ros dei carabinieri), del Dipartimento della Pubblica sicurezza, le domande raccolgono una risposta tetragona. Che suona così. «Non esiste alcun nuovo elemento in grado di capovolgere quanto documentato appena due mesi fa dalla relazione consegnata dai nostri Servizi al Parlamento sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza per il 2014». E in quel documento questo si leggeva: «Il rischio di infiltrazioni terroristiche nei flussi via mare è un’ipotesi plausibile in punto di analisi. Ma è un’ipotesi che, sulla base delle evidenze informative disponibili, non ha trovato sinora riscontro».
Del resto, anche le evidenze statistiche sembrano condurre a un’identica conclusione. Nei primi cinque mesi di quest’anno, le attività di prevenzione delle nostre polizie in materia di terrorismo islamico hanno riguardato 1.982 “obiettivi sensimunque bili” (centri di aggregazione religiosa, associazioni culturali, moschee) che hanno portato all’identificazione di 8.045 stranieri che li frequentavano. I “sospetti” sottoposti a controllo sono stati 961 e 294 le perquisizioni. «Ebbene — chiosa una fonte qualificata della nostra Antiterrorismo — da nessuna di queste attività è emerso un solo nesso in grado di collegare i flussi di migranti via mare ad attività di generico proselitismo jihadista o, addirittura, di pianificazione di atti violenti».
Né cambia la sostanza se si consulta l’ultimo rapporto disponibile di Europol (sugli atti di terrorismo censiti in Europa tra il 2006 e il 2013, solo l’1 per cento è riconducibile a una matrice religiosa) o se, per restare in Italia, si va indietro di un anno. Nel 2014, a fronte di 170.100 migranti (fonte ministero dell’Interno) approdati sulle nostre coste o comunque soccorsi in mare, gli arresti nel nostro Paese per reati connessi a una minaccia di natura terroristico- islamica sono stati sette e 36 i provvedimenti di espulsione. E, anche in questo caso, nelle biografie dei fermati e degli espulsi non è saltato fuori un solo indizio che li collegasse direttamente o indirettamente a un loro ingresso via mare in Italia per «scopi terroristici».
Dunque?
«Dunque — osserva una fonte di vertice del Dipartimento della Pubblica sicurezza — la verità è che la vicenda di Touil è la prova che la più insicura delle rotte eventualmente scelte per infiltrarsi nel nostro Paese per scopi terroristici è proprio quella dei barconi della disperazione. Chi arriva via mare viene identificato e inserito nelle banche dati di Europol, vengono prese le sue impronte digitali. Cessa dunque di essere un invisibile appena mette piede sulle nostre coste. E questo, evidentemente, fa a pugni con la logica che muove chiunque, a qualunque latitudine, pianifichi o stia per mettere a segno un attacco terroristico».
Diversa, evidentemente, è la constatazione o, se si preferisce, la conferma che l’Italia, per ragioni innanzitutto geografiche, sia storicamente — quantomeno a partire dagli anni ‘90 — retrovia, hub o cola terra di transito di chi coltiva il sogno della jihad o dalla jihad fa ritorno (il fenomeno dei foreign fighters). E che nella solitudine in cui è stata lasciata dall’Europa, il suo punto debole sia nella materiale impossibilità di poter avere la certezza che un migrante cui viene consegnato un ordine di espulsione a quell’ordine si attenga davvero e per giunta volontariamente (è il caso di Touil e di migliaia di stranieri come lui), visto che le nostre procedure di respingimento non consentono in questo momento accompagnamenti coatti oltre frontiera («Qui è un gran caos. Il punto debole sta nella procedura di controllo delle impronte digitali. Qui si cercano innanzitutto gli scafisti. I migranti o fuggono o vengono sparpagliati. L’Italia ne ha fin sopra i capelli e ritengo che sia estremamente difficile fare controlli seri su tutti», ha detto ieri a Radio 2-4il procuratore di Agrigento, Renato Di Natale).
Così come è altrettanto evidente e documentato dalle più recenti indagini antiterrorismo che nel nostro Paese le forme di nuova radicalizzazione — e dunque la qualità della minaccia islamista — siano identiche a quelle conosciute (per altro in termini numerici ben più consistenti) dalla Francia o dall’Inghilterra. «Anche noi abbiamo i nostri “ homegrown terrorist” — osserva una fonte dell’Antiterrorismo — Anche per noi vale una minaccia molecolare che non ha più le sembianze delle cellule, di strutture organizzate in forma verticale, ma quella dei cosiddetti selfstarter . Lupi solitari che si radicalizzano con sempre maggior frequenza in Rete o attraverso i social network, autosufficienti dal punto di vista finanziario e capaci di colpire sfruttando la prima “finestra di opportunità” disponibile. Ma, ancora una volta, tutto questo con l’immigrazione via mare non ha nulla a che vedere ».

Repubblica 21.5.15
Ch gioca l’asso dell’immigrazione
di Stefano Folli

L’AFFARE Touil irrompe nella campagna elettorale e scatena Lega e Movimento Cinque stelle a poco più di dieci giorni dal voto. Per la verità l’offensiva contro il governo — e il ministro dell’Interno Alfano, in particolare — non è molto logica.
PERCHÉ il marocchino accusato della strage di Tunisi (ma tutto andrà verificato) non è fuggito. Al contrario, è stato arrestato: segno che stavolta i servizi e le forze dell’ordine hanno lavorato bene. Tuttavia c’è il dettaglio decisivo del barcone. Sembra che il giovanotto sia arrivato in Italia su uno di quei battelli che trasportano i derelitti migranti e forse anche qualche potenziale terrorista. Questa è precisamente la tesi delle opposizioni, non solo in Italia (si veda ad esempio Marine Le Pen in Francia). È una tesi «di destra» che fa breccia nelle paure dell’opinione pubblica. In Italia la sostiene Salvini, ma i seguaci di Grillo non sono da meno perché pescano nello stesso elettorato inquieto e frustrato. È evidente che l’affare Touil si presenta ai loro occhi come un’opportunità da sfruttare, benché il giovane marocchino sia in carcere a Milano e non in fuga verso lo Stato Islamico. È vero che il tema dell’immigrazione incontrollata costituisce una tentazione irresistibile per chi ha bisogno di spostare in fretta blocchi di voti. Eppure questa volta le carte migliori, anche sul piano emotivo, potrebbe averle il governo di centrosinistra. In fondo s’intravede per la prima volta un progetto dell’Unione europea, con l’avallo dell’Onu, per fermare i fatidici barconi in partenza dalla Libia, sequestrarli e distruggerli. L’azione di polizia internazionale, oltretutto a guida italiana, sembra imminente nel Mediterraneo. È rischiosa, certo, e molti aspetti devono essere ancora chiariti. Ma è un’iniziativa concreta che si deve anche all’insistenza con cui l’Italia ha saputo comporre i tasselli di un mosaico assai complesso.
Se il cavallo di battaglia di Salvini e degli stessi «grillini» riguarda il cosiddetto «buonismo» del centrosinistra, ossia l’inerzia passiva di chi non sa vedere la realtà, a questo punto il quadro potrebbe cambiare. Anche la Russia, potenza con diritto di veto nel Consiglio di sicurezza, ha dato il suo benestare alle azioni contro gli scafisti, purché ci si limiti a neutralizzare i battelli e non si pensi a un’occupazione delle coste libiche. Opzione, quest’ultima, che non esiste. «Non mando i nostri soldati a farsi sgozzare in Libia» ha detto il premier con crudo realismo. In sostanza, se l’Europa ha davvero deciso di fermare il traffico di migranti, colpendo i barcaioli con missioni coordinate, essa dispone di tutti gli strumenti necessari. È «solo una presa in giro», come sostiene Giorgia Meloni? Lo vedremo presto. Non prima del 31 maggio, giorno elettorale, ma forse già nel mese di giugno.
Il che significa tre cose. La prima è che, nonostante l’affare Touil, le destre potrebbero trovarsi presto a dover individuare altri bersagli polemici: l’impatto sull’opinione pubblica dei primi barconi sequestrati o distrutti non sarebbe irrilevante e segnerebbe un salto di qualità. Renzi avrebbe un successo da vantare, a conferma che l’Italia è riuscita a farsi ascoltare in Europa. Naturalmente esiste un secondo obiettivo: la distribuzione di un certo numero di migranti, secondo quote stabilite, fra i diversi Paesi dell’Unione. Qui si è visto che gli ostacoli e le resistenze sono formidabili, ma la partita non è chiusa. Se le operazioni nel Mediterraneo daranno dei risultati, si può presumere che l’intera politica europea sull’immigrazione farà passi avanti.
Infine — terzo punto — si continua a ripetere che la soluzione del problema è politica e non militare. Ed è logico che sia così. Alcune missioni di polizia internazionale contro gli scafisti non cambiano lo scenario. Già oggi occorre una forma di intesa con i due governi di Tripoli e Tobruk per avviare le operazioni. Proprio questo primo passo, forse più vicino di quanto non sembri, potrebbe preludere a ulteriori intese, nel solco degli sforzi Onu che l’Italia sta favorendo in modo attivo. Difficile dire quale sarà l’effetto finale sulla campagna elettorale, ammesso che ce ne sia uno. Ma il rebus dell’immigrazione (e le inquietudini connesse) potrebbe non essere più l’asso nella manica di una parte politica contro l’altra.

La Stampa 21.5.15
Yanis Varoufakis
“Rapporto forte con Alexis. Non mi ha messo da parte”
di M. Zat.

Yanis Varoufakis sostiene di avere una registrazione della ministeriale economica di Riga, la riunione in cui gli hanno dato del «dilettante» e dello «scommettitore». Spiega anche che non rende pubblica per rispetto delle regole comuni, le stesse che da quando è in carica ha violato ripetutamente. Può essere l’ennesima boutade. Anche perché è un segreto di Pulcinella che sia stato il ministro slovacco Peter Kazimir a pronunciare le parole più grosse. Non il solo, sia chiaro, a prendere di petto il ministro greco, professore esperto della teoria dei giochi. Gli piace giocare, al ministro superstar. E ne paga il prezzo tutti i giorni.
Coi numeri è un’altra cosa. Forse. Dopo Riga, il premier ellenico ha rimpastato il team dei negoziatori coi creditori di Bruxelles che, subito, hanno rilevato come la nuova formula funzioni meglio della precedente. E’ stato letto come una messa in seconda linea del ministro dell’Economia. «Non è vero - si è imputato il greco con un collega dell’Eurogruppo -: il mio rapporto personale con Tsipras è molto forte, non sarò mai accantonato». Resta convinto di essere il playmaker, Varoufakis. La sua idea è «fondere la revisione del secondo programma con il lancio del terzo», certo che «quanto proposto da Atene sia più che sufficiente». Ma non bastano gli auspici e i colleghi non lo seguono. Rivela la fonte che il presidente dell’Eurozona, Jeroen Dijsselbloem, pensa che «il vero ostacolo all’accordo sia Varoufakis». L’olandese lo trova «poco professionale». Gli altri non commentano. Il loro cruccio è l’atteggiamento di Tsipras e la difficoltà che incontra nel gestire Syriza.
Forse aiuterebbe un ministro meno originale. Si racconta che la commissione Economica dell’Europarlamento abbia invitato Varoufakis per un’audizione e lui abbia risposto che non intendeva parlare coi deputati. Era invece pronto a incontrare capigruppo, per poter avere un dialogo «politico». Non ci si fanno amici così in casa Ue. Anche perciò il New York Times lo ha chiamato «il ministro pronto per la Tragedia greca», del resto ha detto «sarà dannato se accetterò un altro piano che perpetuerà la stessa crisi». Gli piace giocare anche con le parole. Ieri, via Die Zeit, ha battibeccato col tedesco Schaeuble: «spiacevole» che metta in risalto «il potere relativo» della Germania piuttosto che considerare gli argomenti greci. Due uomini non potrebbero essere più diversi, eppure dovranno cercare di convivere per evitare una crisi comune. Sebbene i bookmaker delle cose europee dicano che il futuro di Wolfgang sia più a Bruxelles di quello di Yanis. Una previsione facile, tutto sommato.

Corriere 21.5.15
Prepariamoci a fare i conti: la Grecia ci costerà molto
di Francesco Daveri

Con il passare dei giorni si sciolgono i dubbi nella partita a scacchi tra Atene e Berlino sul nuovo fallimento della Grecia dopo quelli del 2010 e del 2012. Da Atene arriva la dichiarazione di un rappresentante di Syriza che rivela che senza un accordo con i creditori la Grecia non potrà rimborsare i 300 milioni di euro che nei primi giorni di giugno dovrebbe restituire proprio al Fondo Monetario. Cioè Atene vorrebbe un prestito dall’Fmi per rimborsare un debito in scadenza proprio con la stessa istituzione di Washington.
Di fronte a così sofisticata ingegneria finanziaria la mente vacilla. Sul fronte tedesco il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble fa salire ancora la tensione rispondendo che oggi, a differenza di tre anni fa, non si sentirebbe più di escludere un default della Grecia. Tolti i guanti, tra i contendenti volano gli stracci.
In mezzo ai litiganti c’è l’eurozona che per ora osserva noncurante. Noncuranti sono i suoi mercati finanziari, tranquillizzati dall’ombrello protettivo del programma di acquisti di titoli della Bce, iniziato in marzo e per ora senza una vera data di scadenza. Sostanzialmente noncuranti sono anche i governi degli altri Paesi europei che non hanno nemmeno cominciato a spiegare ai loro elettori qualche spiacevole verità. Una è che, anche senza pensare a scenari apocalittici come quello di un contagio del fallimento da Atene ad altre capitali del Sud Europa, il debito greco non è più poca cosa perché ammonta a 325 miliardi di euro. Una seconda verità è che il debito di Atene non è solo una questione tedesca.
Certo, la Germania è il principale creditore, per circa 60 miliardi di euro, poco meno di un quinto del totale. Ma, se dovesse arrivare, il default greco presenterà un conto salato anche per gli altri Stati dell’eurozona. Per l’Italia, sommando i prestiti bilaterali con le quote di partecipazione dell’Italia nel fondo salva Stati, nella Bce e nel Fondo monetario, si arriva a un’esposizione totale che supera i 40 miliardi di euro. Con questi numeri anche un mancato rimborso parziale implica conseguenze di rilievo. È venuto il momento di abbandonare la noncuranza per fare il possibile: o propiziare un’intesa o prepararsi e individuare il modo per evitare le perdite o assorbirle nel modo meno costoso per il Paese.

Corriere 21.5.15
Pressing da Berlino «Il default greco? Non è più escluso»
Il ministro Schäuble: effetto del voto per Syriza
di Danilo Taino

Quando decide di dare un’intervista seduto nel suo ufficio di ministro delle Finanze — dunque non una dichiarazione volante — Wolfgang Schäuble di solito vuole dire qualcosa di significativo. Ieri, lo ha fatto. Ha ammesso che la Grecia potrebbe fare default, cioè non pagare una rata del debito ai suoi creditori. Si tratterebbe di un salto di qualità nella crisi che contrappone il governo di sinistra radicale di Atene al resto dell’eurozona: ma sarebbe la conseguenza — ha sostenuto il politico di governo più autorevole di Germania dopo Angela Merkel — di una scelta fatta dai cittadini ellenici. Schäuble ha anche senza mezzi termini invitato a stare «nei limiti delle sue funzioni» la Commissione Ue, che nei giorni scorsi pareva volere avanzare proposte di mediazione nel negoziato con la Grecia.
In un’intervista ai quotidiani Wall Street Journal e Les Echos , il ministro ha detto che oggi ci penserebbe molto prima di dare di nuovo la garanzia che dette nel 2012, cioè che Atene non avrebbe fatto default. «La decisione sovrana, democratica del popolo greco ci ha lasciati in una posizione molto diversa» ha affermato. Il ragionamento di Schäuble, politico sofisticato, è inteso a fare pressione sul governo ellenico affinché accetti un programma di riforme in cambio di aiuti. Ma va al di là. Quando parla di scelta democratica, cioè dell’elezione al governo del partito di Syriza, indica due cose.
Innanzitutto, che se Atene fa default non è perché una crisi finanziaria è sfuggita di mano ma perché un Paese democratico può decidere di non pagare i creditori, subendone le conseguenze (e, aggiunta logica ma non detta dal ministro, può anche scegliere di uscire dall’euro). In secondo luogo — ancora più importante — indica che lo stallo attuale delle trattative è politico, non tecnico. E, come ogni scelta politica, può essere rovesciata. E qui si apre uno scenario — che qualcuno giudica cinico, altri realista — che in Europa ha preso ormai piede senza che nessuno lo espliciti: prevede che la soluzione alla crisi ellenica passi per un cambio di governo ad Atene. Che potrebbe avvenire attraverso nuove elezioni o un referendum. La questione corre sottopelle ma sta diventando di attualità.
Non a caso, due giorni fa, il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis ha detto di non ritenere (più) opportuno un referendum sull’accettare o meno le proposte dei creditori: dice che sarebbe di fatto un referendum sullo stare o meno nell’euro. Varoufakis si contraddice due volte: in marzo, in un’intervista al Corriere , aveva detto che il referendum era un’ipotesi possibile e quando il Corriere aveva scritto che sarebbe stato inevitabilmente sull’appartenenza o meno all’euro aveva accusato il giornale di essere parte di una campagna anti-Syriza. Oggi dice due cose contrarie. Ma probabilmente ha colto che nell’aria si sta consolidando l’idea di spingere Syriza a confrontarsi con gli elettori.
Schäuble ha anche invitato la Commissione Ue a limitarsi al suo ruolo di controllore della situazione in Grecia, al fianco della banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale. E a non avanzare proposte: nei giorni scorsi è circolato un progetto del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker che Berlino considera troppo favorevole ad Atene. «Molta gente parla di cose che non capisce o delle quali non è responsabile — ha detto in stile suo tipico — La Commissione svolge il suo ruolo come parte delle tre istituzioni. Ma agisce nei limiti delle sue funzioni». Le decisioni, in altre parole, le prendono i singoli Paesi. La settimana prossima, Schäuble presiederà a Dresda un G7 finanziario nel quale si discuterà di Grecia: vuole arrivarci in posizione di forza e senza avere sul tavolo proposte che giudica non accettabili.

Corriere 21.5.15
Cecenia, la sposa bambina «consegnata» al colonnello Il leader: «Nozze del secolo»
di Maria Serena Natale

Kheda ha 17 anni, nelle foto in abito bianco ha gli occhi sempre bassi. Va a sposarsi con il velo e il bouquet, va da Nazhud, colonnello di polizia che alla sua famiglia aveva detto: «Consegnatemi Kheda o ve ne pentirete». Scene da un matrimonio ceceno.
Sabato scorso alla festa di nozze c’erano tutti quelli che contano, a Grozny. C’era anche Ramzan Kadyrov, il luogotenente del presidente russo Vladimir Putin nel Caucaso. «Il matrimonio del secolo» ha detto Kadyrov prima di pubblicare in Rete il filmino del ricevimento con gli invitati che danzano sotto lo sguardo triste di Kheda.
Nazhud Guchigov, 46 anni, già sposato, aveva scelto Kheda Goilabieva molto tempo fa e alla giornalista di Novaia Gazeta che nelle scorse settimane aveva rivelato la storia, Elena Milashina, ha mandato una pattuglia come avvertimento: «Sei osservata speciale». Elena ha lasciato la Cecenia. Un’unione forzata che ha sollevato una valanga di critiche e commenti in Rete, al punto da costringere Kadyrov a richiamare all’ordine i suoi: «Comportatevi da ceceni, l’onore della famiglia è la cosa più importante. Uomini, tenete le vostre mogli lontano da WhatsApp». Il leader di Grozny si è sempre detto favorevole alla poligamia, bandita ma non punita dalla legge russa e di fatto diffusa nella musulmana Cecenia. Senza scampo. Alla cerimonia era invitata anche Kheda Saratova del Consiglio diritti umani della Repubblica caucasica che ha rivolto «i migliori auguri agli sposini», mentre dalla Russia il difensore dei diritti dei minori Pavel Astakhov commentava: «Emancipazione e maturità sessuale nel Caucaso arrivano prima».

La Stampa 21.5.15
L’Isis entra a Palmira, preso anche il museo
di Gio. Sta.

Lo Stato islamico si sta prendendo Palmira. La città delle mitica regina Zenobia, uno dei siti archeologici più importanti in Siria, con templi e statue ellenistiche e romane, è per tre quarti nelle mani dei combattenti islamisti. Ieri sono penetrati nella città da Nord e da Sud, hanno preso i centri amministrativi e la sede del museo. Nelle mani governative restano la prigione (famigerata), l’area archeologica e la base aerea a Est.
Dopo i saccheggi nei siti iracheni di Mosul, Hatra e Nimrud ora si teme un’altra devastazione. La direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova, ha chiesto lo «stop immediato» degli scontri. I funzionari governativi sono riusciti a portare in salvo alcune centinaia di reperti custoditi nel museo. Ma i resti di templi e palazzi sono esposti ai combattimenti, ai violenti scambi di artiglieria fra le milizie filo-governative, lasciate a guardia della città dopo l’offensiva della scorsa settimana che ha costretto le truppe governative a ritirarsi, e i reparti dell’Isis.
Giacimenti di gas
Le milizie tribali hanno anche fatto evacuare la maggior parte dei civili per timori di rappresaglie. Palmira, Tadmur in arabo, è sulla superstrada che da Dair az-Zur, dove la guarnigione governativa è ora completamente isolata, porta a Homs, nel cuore fertile della Siria. E al centro di una regione ricca di giacimenti di gas.

La Stampa 21.5.15
Fra Hamas e Israele negoziati top secret per 10 anni di tregua
Decisiva la mediazione turca. L’ira di Abu Mazen
di Maurizio Molinari

Abu Mazen è su tutte le furie, i suoi collaboratori non parlano d’altro e nel «press club» della Muqata i reporter arabi sono alle prese con la «storia di Gaza»: l’argomento che tiene banco in Cisgiordania è il negoziato segreto fra Hamas e Israele per raggiungere una «hudna», una tregua, di 5-10 anni.
Località segreta
Una ricostruzione minuziosa viene da «Ad-Dustour», quotidiano giordano che, citando fonti occidentali, spiega come Hamas e Israele conducono «colloqui segreti» in almeno una «città europea», forse attraverso emissari della Turchia, il più stretto alleato dei fondamentalisti che controllano la Striscia dal 2007. In questa «località segreta», forse Istanbul o una città tedesca, i «colloqui» sono iniziati sullo scambio fra i resti di un soldato israeliano di origine etiope caduto a Gaza e un imprecisato numero di prigionieri palestinesi.
Il nodo frontiere
Hamas e Israele avrebbero affrontato anche il nodo delle frontiere ovvero la possibilità che Gerusalemme riconosca de facto la Palestina dentro i confini della Striscia, siglando accordi bilaterali per migliorare la qualità della vita dei residenti, a cominciare dalla fornitura di elettricità e acqua come già avviene in Cisgiordania. Per «Ad-Dostour» ciò che più conta è il progetto di un «porto di accesso a Gaza», a Cipro o altrove nel Mediterraneo, sotto il controllo di Hamas, per facilitare l’arrivo di merci senza evadere i controlli israeliani. L’idea di un «porto fluttuante nel Mediterraneo» per accedere a Gaza risale all’ex premier Ariel Sharon e Hamas sembra disposto a discuterla, come avviene per l’ipotesi di un’estensione della Striscia a un’area del Sinai che verrebbe concessa dall’Egitto.
Le parti negano
I portavoce di entrambe le parti negano tutto. Per Sami Abu Zuhri, di Hamas, sono «notizie tese a ingannare» ed Emmanuel Nachson, portavoce del ministro degli Esteri israeliano, taglia corto: «Di questo non parlo». Ma a farlo è Abu Mazen che, durante una visita in Giordania, ha affermato di essere «del tutto al corrente dei contatti Hamas-Israele» aggiungendo di considerarli «nocivi per il popolo palestinese».
Allentato il blocco
L’irritazione si spiega con l’esistenza di più canali tutti estranei a Ramallah, inclusi gli incontri fra Muhammad Al-Ahmadi, ambasciatore del Qatar a Gaza, con il generale Yoav Mordechai, coordinatore delle attività nei Territori, sulla necessità di un «Tahdiat Ala’amar», cessate il fuoco per la ricostruzione. Proprio Mordechai è all’origine dell’allentamento non dichiarato del blocco della Striscia, testimoniato dall’entrata di camion con 1 milione di tonnellate di materiali edili di cui 180 mila per la ricostruzione delle case distrutte nell’ultimo conflitto.
Restituite le barche
Altri segnali di «confidenza reciproca» sono la restituzione da parte di Israele di gran parte delle barche sequestrate ai pescatori di Gaza e la rapidità con cui Hamas ha accertato chi, dieci giorni fa, ha lanciato razzi sul Negev. Per i reporter nel «Press Club» della Muqata tutto ciò dimostra che «chi sta a Gaza pensa a Gaza» più che alle sorti della Cisgiordania. Ma l’interrogativo riguarda cosa avverrà dentro Hamas ovvero se a prevalere saranno esponenti politici come Ahmad Yousef, legati al leader all’estero Khaled Mashaal favorevole ai colloqui segreti, oppure i comandanti militari fedeli a Mohammed Deif, capo dell’ala armata sostenuta da Teheran e contraria a ogni tregua con il nemico israeliano.

Repubblica 21.5.15
Bus vietato ai palestinesi l’apartheid di Netanyahu costretto a fare dietrofront
Il governo voleva la separazione dai lavoratori israeliani. Accuse di razzismo, stop del premier ma il ministro-falco ci riproverà
di Fabio Scuto

GERUSALEMME Inseguito dalle critiche del suo stesso partito, del capo dello Stato Reuven Rivlin, dell’opposizione che denunciava una deriva razzista, il premier Benjamin Netanyahu è stato costretto ieri a bloccare il primo provvedimento del nuovo governo. Concepito dal fedelissimo ministro della Difesa Moshe Yaalon, avrebbe vietato per tre mesi ai pendolari palestinesi in Israele di usare i mezzi pubblici e li avrebbe obbligati ad usare solo quattro check-point per entrare e uscire dalla Cisgiordania. Annunciato in mattinata, il decreto provvisorio è stato poi ritirato poco dopo mezzogiorno quando l’ufficio del premier è stato bersagliato di telefonate di esponenti politici — anche del Likud — che definivano il provvedimento «inaccettabile » e dichiarazioni dell’opposizione che bollavano la decisione come «miserabile», degna dell’apartheid sudafricano. Un simile piano «è una macchia sul volto del nostro Stato», ha dichiarato alla tv il laburista Isaac Herzog, capo dell’opposizione, che ha parlato anche di umiliazioni non necessarie inflitte ai lavoratori palestinesi.
Netanyahu, allarmato da un vistoso titolo di Haaretz online che parlava di apartheid — ha deciso di bloccare subito l’iniziativa. Con una breve dichiarazione il premier ha bollato come «inaccettabile» il piano, come se fosse stato all’oscuro della decisione del suo ministro della Difesa. Il presidente Reuven Rivlin ha applaudito alla decisione. Rivlin — che rappresenta l’ala liberale del Likud — ha definito «la separazione di linee di trasporto per arabi ed ebrei inimmaginabile ». Un concetto del genere, ha aggiunto, «contrasta con le stesse fondamenta dello Stato d’Israele». Parole condivise anche da un altro esponente “liberale” del Likud, Dan Meridor e dall’ex ministro degli Interni Gideon Saar. Soddisfatto anche il Procuratore generale Yehuda Weinstein, secondo il quale il progetto si prestava a ricorsi alla Corte Suprema già annunciati da “Peace Now” e altre Ong che difendono i diritti umani. Sono 92.000 i palestinesi che hanno un impiego in Israele, legale o illegale; 52.000 hanno un permesso di lavoro, gli altri entrano clandestinamente. La gran parte viene impiegata nell’edilizia, con un salario inferiore a quello israeliano.
Il “piano Yaalon” non è qualcosa deciso in fretta, giaceva da tempo nei cassetti del ministro della Difesa, che ha deciso di avviarlo, dopo che il Consiglio dei coloni — assai influente nel nuovo governo — aveva dichiarato che i passeggeri ebrei temono per la propria vita quando si trovano a bordo dei bus con i pendolari palestinesi. Al centro delle polemiche c’è la linea 86 che collega Tel Aviv alla città-colonia di Ariel, in Cisgiordania. In origine era stata istituita a beneficio dei coloni, col tempo un numero crescente di manovali palestinesi impiegati in Israele ha scoperto che utilizzandola risparmiava tempo prezioso nel ritorno a casa in Cisgiordania, e anche soldi. A quel punto però i passeggeri israeliani, sentendosi a disagio perché spesso minoranza fra palestinesi, hanno fatto pressioni politiche sul ministero della Difesa perché trovasse una soluzione.
Il progetto del ministro Yaalon — che si ripropone di presentarlo più avanti — impone ai palestinesi, oltre ai bus “speciali”, di far ritorno in Cisgiordania soltanto attraverso 4 checkpoint autorizzati allungando i tempi di spostamento dei pendolari di almeno due ore.
La questione bus non è entrata nel colloquio avuto ieri da Netanyahu con l’Alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini a cui il premier israeliano ha dichiarato di «sostenere una visione di due Stati per due popoli, una Palestina demilitarizzata che riconosca lo Stato ebraico».

La Stampa 21.5.15
La sfida di Xi
“Le religioni iano leali alla Cina”
di Ilaria Maria Sala

Xi Jinping, Presidente cinese, e segretario generale del Partito Comunista, ieri, nel corso di un incontro di Partito di alto livello, ha affermato che le religioni professate in Cina devono essere indipendenti da influenze straniere, ribadendo la necessità che i gruppi religiosi nazionali giurino fedeltà allo Stato cinese. Considerando che la maggior parte delle religioni seguite in Cina – dal buddhismo al cattolicesimo, per non dimenticare l’Islam e il cristianesimo, con l’eccezione del taoismo – sono nate fuori dai confini nazionali, le parole di Xi possono apparire un po’ misteriose.
Ma non fanno altro che ribadire quella che è una caratteristica ormai chiara della Cina di Xi Jinping: ovvero, che il controllo del Partito deve essere ancora più stretto e fermo di prima. Così, mentre la Cina continua il suo viaggio di apertura verso il resto del mondo, e promuove la sua cultura con determinazione con gli Istituti Confucio e investimenti per espandere il proprio «soft power», non vuole che nulla di «straniero» possa influenzare le menti cinesi e portarle a mettere in dubbio la legittimità del Partito. Proprio in questi mesi Pechino ha lanciato campagne per «eliminare le influenze occidentali» dai libri di scuola e dagli insegnamenti universitari. Ora, è il turno delle religioni.

Corriere e La Prensa 21.5.15
L’espansione cinese nel cortile americano

Il premier cinese sta visitano Brasile, Perù, Colombia e Cile, e in valigia porta accordi con molti zeri. «Pechino compra petrolio dal Venezuela, rame da Perù e Cile, soia da Argentina e Brasile...», scrive Alejandro Tagliavini sul nicaraguense La Prensa , ricordando la promessa di «investimenti per 250 milioni di dollari in America latina». Fin dove arriverà l’espansione cinese nel cortile di casa Usa? «La corsa agli investimenti e gli accordi di libero scambio — grande ironia “comunista” — provocano davvero parecchia inquietudine a Washington».

Corriere 21.5.15
Valori traditi e ricchezza: un triangolo di affetti sulla Cina senza identità
Jia Zhang-Ke: l’irruzione del denaro ha stravolto tutto
di Giuseppina Manin

CANNES «Go West»! Dove la vita è serena, il cielo blu e il sole brilla d’inverno… Così cantavano negli anni 90 i Pet Shop Boys. E con loro gli adolescenti di mezzo mondo. «Ogni volta che l’ascoltavamo tra amici ci si metteva a ballare. Quella canzone racchiudeva l’energia e la gioia di un’epoca» ricorda Jia Zhang-Ke, 45 anni, nel 2006 Leone d’oro a Venezia con Still Life e ieri a Cannes con Shan he gu ren (Mountains May Depart) , affresco di una Cina in crisi d’identità, subito balzato tra i titoli in odore di palmarès. Che si apre proprio con un allegro gruppo di giovani scatenati, nella notte di fine anno del 1999 al ritmo di quella canzone, inno all’ottimismo per salutare il nuovo millennio.
«Allora per noi ragazzi il “Go” era più importante del “West” — avverte Zhang —. Volevamo andare. Non importava dove, ma andare. A rendere la canzone profetica nell’altro senso è stata la storia. Di fatto, la parola chiave della nuova Cina era il West, l’Occidente». Con i suoi miti, le sue tentazioni e aberrazioni. Il capitalismo sfrenato, la globalizzazione, l’inquinamento, la perdita delle radici.
«L’irruzione del denaro ha stravolto tutto, ha ribaltato valori, tradizioni, persino gli affetti più profondi» prosegue il regista che, per ricapitolare quel percorso così inatteso e travolgente si impegna in un su e giù nel tempo. «Tre le date: il fine anno del ’99, così pieno di promesse, il 2014 quando quel sapore effervescente è già svanito, il 2025 che verrà».
Venticinque anni che stravolgeranno la storia del Paese e le vite dei tre protagonisti, due amici innamorati (come nel film Jules e Jim) della stessa ragazza. Un triangolo di affetti sgretolato dal potere dei soldi. Davanti alla scelta tra quello che lavora in miniera e per di più è un po’ musone e quello che gestisce una pompa di benzina e la porta in giro su un’auto rossa, la dolce Tao sceglie il secondo. A rendersi conto che non è tutto amore quello che luccica, la decisione del marito di chiamare il loro figlio Dollar Zhang. Il cinese del futuro è nato. “La ricchezza del padre servirà per garantire al figlio la necessaria metamorfosi. Scuole private, vacanze di lusso, barche a vela… E al posto del cinese, l’inglese. La lingua degli affari, la sola in cui ormai si esprimono tanti giovani cinesi. Ma non i loro genitori. E così la comunicazione s‘interrompe”.
Trasferito con il padre a Shanghai, New York d’Oriente, Dollar cresce lontano da Fenyang (città natale di Jia Zhang-Ke) e dalla madre, opportunamente divorziata. La rivedrà solo una volta, per i funerali del nonno, e per entrambi sarà uno choc. Estranei l’un l’altra come lingua, gusti, modi di fare. Li ritroveremo, nel 2025, Tao ormai con i capelli grigi nella sua casa cinese a far ravioli e portare a spasso il cane, Dollar in una lussuosa villa sul mare in Australia, dove papà traffica in armi imprecando contro il paradosso di una libertà: «Che mi consente di comprarne quante mi pare ma non mi lascia sparare a nessuno…».
Nonostante la mala educatión del babbo, Dollar però non è più certo che il suo nome sia la garanzia del futuro. La Cina è lontana, mammà anche, lui finge di non ricordarsene il nome ma non sfugge al profumo dei suoi ravioli. Una prof di cinese, che per età potrebbe essergli madre, lo inizierà alla sua cultura d’origine e anche al sesso. «Come molti della sua generazione, Dollar inizia a chiedersi se tutto quel denaro abbia davvero migliorato la nostra vita o l’abbia distrutta. Ci ha dato benessere ma in cambio ci ha tolto la cultura, la natura, i sentimenti. Tutto sconvolto troppo in fretta. Forse non è stato un affare».

Repubblica 21.5.15
I giovani “liquidi” Una, nessuna centomila identità
Perché i ragazzi dell’era social ribaltano le paure dei padri
Per chi appartiene alle nuove generazioni ogni scelta è una rinuncia alle scelte future
di Zygmunt Bauman

IL FESTIVAL
Questo testo è un estratto della lectio che Zygmunt Bauman (foto) terrà domani alle 18 al Festival èStoria di Gorizia, in corso da oggi a domenica Sabato alle 17,30 Roberto Saviano riceve il premio Friuladria 2015

TRA i buoni motivi per interpretare l’avvento dell’era moderna come una trasformazione promossa soprattutto dagli interessi della classe media (o per riprendere la terminologia di Marx, come una “rivoluzione borghese” vittoriosa) appaiono preponderanti il timore ossessivo, tipico del ceto medio, della fragilità dello status sociale, e gli sforzi tesi a difenderlo e a stabilizzarlo. Nel delineare il profilo di una società esente da infelicità, i progetti utopistici che abbondavano all’inizio dell’era moderna riflettevano soprattutto i sogni e i desideri della classe media; ritraevano una società purificata dalle incertezze, e soprattutto dalle ambiguità e dalle insicurezze legate alla posizione sociale, nonché dai diritti e dai doveri che quella posizione portava con sé.
Per quanto quei progetti potessero essere diversi l’uno dall’altro, erano concordi all’unanimità nello scegliere la durata, la solidità, l’assenza di cambiamento come premesse essenziali di una società “buona” e della felicità umana. I progetti utopistici immaginavano soprattutto la fine dell’incertezza e dell’insicurezza: in altre parole promettevano un assetto sociale assolutamente prevedibile. La società “buona” e persino la società “perfettamente buona” delle utopie era una società che aveva risolto una volta per sempre tutte le paure più tipiche del ceto medio. Si potrebbe dire che i ceti medi erano l’avanguardia che, prima del resto della società, esplorava e faceva esperienza delle principali contraddizioni dell’esistenza destinate, ce lo si volesse o no, a diventare caratteristiche universali della vita moderna: la tensione perenne fra due valori, la sicurezza e la libertà, valori ugualmente desiderati e indispensabili per una vita appagante, ma difficili da conciliare, da possedere e godere simultaneamente.
I più giovani fra noi sono entrati in una società in cui la grande maggioranza delle persone si trova a vivere nella condizione riservata un tempo alle sole “classi medie”: a differenza delle classi alte (che oggi si chiamano “élite globali”) e di quelle basse (ora definibili “meno abbienti”), si trovano a dover scegliere non fra un’insufficiente varietà bensì fra una sovrabbondanza di modelli. Con il terribile rischio di sempre: scegliere un modello e dover rinunciare a molti altri altrettanto interessanti. È il rischio di inciampare, scivolare, cadere. Oggi l’ansia, e di conseguenza l’impazienza e la fretta dei giovani, derivano da un lato dall’apparente abbondanza di scelte possibili, dall’altro dal timore di fare una cattiva scelta, o di “non fare la scelta migliore possibile”. In altre parole sono figlie del terrore che una splendida opportunità sfugga quando c’è ancora tempo (fuggente) per coglierla. A differenza di ciò che accadeva ai loro genitori e ai loro nonni, educati durante la fase “solida” della modernità, oggi non ci sono codici di comportamento durevoli o autorevoli abbinabili alle scelte raccomandate, e tali da guidare il giovane lungo un percorso sicuro dopo che ha fatto la sua scelta (o accettato con obbedienza la scelta consigliata da altri). Il pensiero che un passo intrapreso possa (solo possa) essere stato uno sbaglio, e possa (solo possa) essere troppo tardi per contenere le perdite che ha causato, e soprattutto troppo tardi per tornare indietro da quella scelta infelice, continuerà a tormentarli per sempre: da qui dunque quel loro risentimento per tutto ciò che è “a lungo termine”, che sia il progetto della propria vita, o l’impegno nei confronti di altri esseri umani.
Ciò che conta di più per i giovani, quindi, non è “definire un’identità”, ma mantenere la propria capacità di ridefinirla quando è (o si pensa che sia arrivato) il momento di darle una nuova definizione. Se i nostri antenati si preoccupavano della loro identificazione, oggi prevale l’ansia di reidentificazione. L’identità deve essere a perdere perché un’identità che non piace, non piace abbastanza, o semplicemente rivela la sua età rispetto a identità “nuove e migliori” disponibili sul mercato, deve essere facile da abbandonare. Forse la qualità ideale dell’identità più desiderata sarebbe la biodegradabilità.
Poiché le opzioni disponibili non sono fondate su valori durevoli, incontestati e riconosciuti autorevolmente, la valutazione delle scelte non può che seguire le regole dei beni di consumo: l’identità scelta deve essere “messa sul mercato” per “trovare il suo valore”. L’identità progettata ed esibita che non trova e non crea una sua clientela è punita con l’esclusione (il voto contrario, il pregiudizio, la persona è ignorata, snobbata...), che è l’equivalente sociale del bidone dei rifiuti. I più “talentuosi” sono quelli con più contatti, sia sui social network, nonché sui loro blog personali che sono già più di settanta milioni e diventano sempre più numerosi).
Laurie Ouellette, docente di scienza delle comunicazioni e dei reality tv all’università del Minnesota, afferma che «molti adolescenti sentono la forte esigenza di crearsi un’identità allargata come le celebrities che vedono rappresentate nei media nazionali », riconfermando un’opinione ampiamente condivisa dagli esperti e dall’opinione pubblica in generale. “Identità allargata” significa soprattutto una più ampia esposizione: più gente da guardare e da cui essere guardati (utenti di internet/banda larga), un maggior numero di appassionati di internet stimolati/eccitati/ divertiti da ciò che vedono, e sollecitati al punto da voler condividere l’evento con i loro contatti. Tutti sanno bene che la probabilità di diventare famosi attraverso un blog personale è di poco superiore alla probabilità che una palla di neve resista al caldo dell’inferno, ma tutti sanno anche che la probabilità di vincere alla lotteria senza comperare un biglietto è zero.
Possiamo forse criticare i giovani perché vivono di corsa, inseguendo un’illusione? Non credo. Sono, proprio come noi, degli esseri razionali e così, non diversamente dai loro predecessori fanno del proprio meglio per reagire alle sfide sociali nel modo più ragionevole, efficace e responsabile, e per trarre una strategia di vita ragionevole dalla cornice sociale in cui vivono. Non hanno scelto loro (e tanto meno creato) questa “modernità liquida” in cui nessuna rappresentazione di se stessi, anche se di successo nell’immediato, è garantita a lungo termine; in cui ciò che oggi è irrinunciabile, è destinato già domani o dopodomani ad essere logoro. In altre parole, una condizione in cui mantenere aggiornata l’immagine di se stessi è un compito da ventiquattr’ore al giorno per sette giorni alla settimana.

La Stampa 21.5.15
In mostra a Napoli e Pompei
i calchi restaurati delle vittime del 79 d.C.

La famiglia della Casa del Bracciale d’Oro, la mamma che muore insieme con il piccolino seduto sul suo grembo, un uomo e un altro bambino, forse di due anni, vittime dell’eruzione del Vesuvio nell’antica Pompei. Sono le scene più impressionanti degli 86 calchi giunti alle ultime fasi di restauro per essere inseriti nella mostra «Pompei e l’Europa. 1748-1943» in programma dal 26 maggio tra l’area archeologica di Pompei e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Al centro della rassegna uomini e donne del 79 d.C colti nell’estremo istante della morte: le loro tracce, rimaste impresse sotto una coltre di cenere e lapilli, furono individuate nel 1863 dall’archeologo Giuseppe Fiorelli che ideò la tecnica per ottenerne i calchi, per poi estrarli intatti dagli scavi. «Finora non erano stati censiti, per un sentimento etico con il quale sono stati sempre trattati questi resti umani - dice il Soprintendente archeologico di Pompei, Ercolano e Stabia, Massimo Osanna -. Non sono statue di gesso né bronzi, ma persone vere e vanno trattate con rispetto».