La Stampa 19.5.15
Per le Regionali. guerra civile a destra e a sinistra
di Marcello Sorgi
Non sarà affatto facile, stavolta, valutare i risultati delle regionali. E non solo perché non c’è un metodo condiviso - il numero di regioni conquistate o le percentuali di voti raccolti dai partiti -, ma anche a causa delle contese interne, dagli sviluppi imprevedibili, che a due settimane dall’apertura delle urne si sono aperte nei due campi principali.
Nel centrosinistra è quel che Renzi ha definito lo scontro tra riformisti e «sinistra masochista», che punta a farlo perdere o a ridimensionarne la vittoria.
Il campo di battaglia è la Liguria, dove Pastorino, proposto da Cofferati e Civati, corre contro la Paita, messa in pista dal Partito democratico. Ma la posta in gioco è nazionale, specie dopo che un altro dei capi della minoranza, l’ex viceministro Fassina, ha detto che se votasse in quella regione sceglierebbe Pastorino. Anche le reazioni del sindacato e di altri avversari interni di Matteo Renzi sul rimborso delle pensioni, deciso ieri dal Consiglio dei ministri, vanno in quella direzione.
Per non dire della riforma della scuola in votazione alla Camera, sulla quale, malgrado i tentativi del premier di venire incontro alle obiezioni dei suoi oppositori, continua il muro contro muro.
Un’analoga implosione, anzi, se possibile, più fragorosa, sta avvenendo nel centrodestra. Al violento faccia a faccia quotidiano tra Salvini e Alfano, con il leader della Lega che accusa il ministro dell’Interno di non farlo proteggere abbastanza dagli agguati degli ultras dei centri sociali, e il titolare del Viminale che reagisce spiegando come fino a questo momento ben 8500 agenti siano stati impegnati in sua difesa, s’è aggiunta la disintegrazione della parte restante di Forza Italia, con Fitto che ha annunciato l’uscita dal partito berlusconiano e Verdini con un piede sulla porta. Tal che l’ex Cavaliere, da leader indiscusso dell’intero centrodestra, nel giro di pochi mesi, e soprattutto di questi ultimi giorni in cui aveva cercato di rientrare in campo, s’è ridotto a capo di una corrente di fedelissimi e di un terzo dei parlamentari che aveva scelto e fatto eleggere uno per uno.
Il processo disgregativo - più avanzato in quest’ultimo schieramento, in cui appunto la leadership berlusconiana è in via di esaurimento, ma non meno grave nell’altro, perché al contrario quella renziana è al massimo della sua forza - comporta conseguenze inattese da una parte e dall’altra. A sinistra, l’obiettivo degli antirenziani, non è tanto impedire la vittoria della Paita in Liguria, territorio chiave dello scontro, ma costringerla ad un’affermazione stentata, che la metta nella difficoltà di scegliere se governare la regione negoziando con la destra di Toti una sorta di mini-patto del Nazareno in salsa genovese, o trattare con i ribelli di Pastorino, Cofferati, Civati e Fassina. Va da sé che se invece la Paita non ce la facesse, Renzi avrebbe buon gioco a scaricare sui «masochisti» il peso della sconfitta.
Altro simile, complicato algoritmo riguarda la Campania: se a vincere sarà De Luca, con l’aiuto delle liste a suo nome inzeppate di candidati «impresentabili», gli avversari del premier diranno che il prezzo della vittoria sarà stato l’accordo con il partito dei pregiudicati, il cui candidato-governatore, condannato e impedito dalla legge Severino, non potrà insediarsi alla guida della Regione prima di una nuova pronuncia del Tar. Se invece l’ex sindaco di Salerno sarà sconfitto, i ribelli diranno che la colpa è di Renzi che non ha voluto far pulizia.
Argomenti equivalenti verranno ovviamente utilizzati per motivare le percentuali dell’astensione, che si annuncia di nuovo alta. E anche nel centrodestra la partita interna s’è complicata perché si intreccia con la successione, ormai aperta, di Berlusconi, un problema di cui anche i più fedeli all’ex Cav. non fanno mistero, anche se lo affrontano con maggior cautela.
L’alternativa che si propone è quella tra uno schieramento a trazione leghista e un altro a leadership moderata. Berlusconi è stato l’unico a incarnare perfettamente le due anime, modulandole secondo i momenti e le convenienze a aggiungendovi la capacità di tenere insieme per vent’anni un’armata Brancaleone che andava dagli ex Dc alla destra estrema. Adesso l’uomo forte è Salvini, che in un anno è riuscito a rianimare il fantasma del Carroccio, divorato dagli scandali bossiani, e a dargli la nuova identità di partito radicale, populista, nazionale, alleato in Europa con la Le Pen e i movimenti xenofobi: una macchina da voti che si accinge a celebrare il sorpasso di Forza Italia e a lanciare la sfida: o con me o contro. È esattamente questo che gli altri non vogliono accettare, ed è la ragione per cui Alfano e i centristi, fautori di un futuro moderato del centrodestra, hanno accettato lo scontro quotidiano con il leader leghista, e Fitto ha accelerato la fuoruscita, per prepararsi a correre per il dopo-Berlusconi. Ciò significa che la vittoria di Zaia e del Carroccio in Veneto, data ormai per scontata, non basterà a fare di Salvini il successore dell’ex Cav. E ad esclusione della Liguria, dove tutto il centrodestra, con il candidato-governatore berlusconiano Toti e il vice del Carroccio Rixi, si presenta unito, nelle altre regioni, dalla Toscana all’Umbria, dalle Marche alla Puglia, dove i moderati, alleati di forze territoriali, hanno cercato di ricostruire l’altra anima del centrodestra, i voti si conteranno e si peseranno. In questo senso, le regionali, per il centrodestra, potrebbero diventare l’anticamera delle primarie, vagheggiate e sempre negate dalla leadership carismatica del Fondatore.
Certo, resta da capire come faranno gli elettori, ormai abituati al meccanismo semplice del bipolarismo, a dipanare le matasse imbrogliate che gli si presenteranno nelle urne. Al momento, c’è una sola previsione possibile: a parte l’astensione, che rimane il rifugio dei più stufi, a beneficiare della guerra civile che si combatte a sinistra e a destra potrebbe nuovamente essere Grillo.