sabato 16 maggio 2015

La Stampa 16.5.15
Perché è illusorio pensare di fermare i popoli che emigrano
di Roberto Toscano


Si parla tanto di globalizzazione – o meglio, per usare la più calzante espressione francese, di mondializzazione – ma poi finiscono sempre per prevalere le analisi limitate, autoreferenziali. Analisi che ci fanno perdere di vista la vera natura ed entità dei problemi, e anche il fatto che non solo è impossibile sottrarci a quelle sfide, ma che potremo affrontarle sono in chiave realmente e non retoricamente globale.
E’ vero anche per le migrazioni, quegli spostamenti apparentemente incontrollabili di grandi e dolente masse umane che cercano di sottrarsi alla violenza e alla fame. Che sia così dovrebbero ricordarcelo le cifre: dei 45 milioni di rifugiati attualmente registrati dagli organismi dell’Onu soltanto una minima parte è ospitata in Paesi sviluppati, mentre la maggioranza si trova in campi – spesso vere e proprie città – situati in Africa, Asia, Medio Oriente. In altri termini, in Paesi che molto meno dei nostri possono permettersi di dedicare le loro scarse risorse a un impegno umanitario di tali dimensioni. E anche le migrazioni economiche avvengono in gran parte in direzione Sud-Sud piuttosto che Sud-Nord: dai bangladeshi in India ai congolesi in Sudafrica.
Ma se non vogliamo guardare alle cifre, in questi giorni dovrebbe bastare aprire la televisione e vedere il tragico spettacolo di gente alla deriva su imbarcazioni di fortuna. No, non vengono dal Nord Africa, e non si dirigono verso le nostre coste.
Appartengono a una minoranza musulmana di Myanmar, che cerca di sottrarsi a discriminazioni e persecuzioni che rendono la loro vita impossibile, e si dirigono verso Thailandia, Indonesia, Malaysia. Paesi che non stanno certo gestendo operazioni come «Mare Nostrum» (un capitolo che, sarebbe bene non dimenticarlo, ci fa onore), ma anzi li respingono mettendone al rischio la sopravvivenza, dato che spesso quando si avvicinano alle coste hanno terminato sia viveri che acqua.
Gli scettici, che non mancano anche su questo drammatico tema, dicono che la miseria è sempre esistita e che ogni Paese dovrebbe farsi carico dei propri problemi, delle proprie miserie.
Che il nostro «buonismo» è disastrosamente autolesionista e ci espone a insostenibili danni economici e a rischi per la nostra stessa sicurezza.
Dimenticano che in materia di rifugiati esistono norme internazionali, da applicare magari aggiornandole, come sta oggi cercando di fare l’Europa, alle esigenze del nostro tempo, ben diverse da quelle che avevano ispirato, nel 1951, la Convenzione sull’asilo politico, basata su casi individuali di persecuzione politica piuttosto che su spostamenti di grandi masse umane.
Ma oltre le norme dovremmo anche considerare la realtà del mondo contemporaneo. Un mondo in cui è diventato illusorio applicare la libera circolazione ai capitali e impedirla per gli esseri umani, i cui spostamenti sono invece simili all’effetto del principio fisico dei vasi comunicanti. Ormai, per citare Zygmunt Bauman, anche le popolazioni sono «liquide» e difficili da fermare. Non ci riescono gli americani, difficilmente accusabili di essere «buonisti» ma incapaci di impedire il passaggio di migranti illegali dal Messico e dal Centro America.
E, per quanto riguarda l’Europa, non esiste solo il transito mediterraneo, ma i migranti arrivano anche via terra, spesso con lunghi percorsi che attraversano Turchia, Grecia, Albania, Kosovo per puntare verso la Germania e la Scandinavia.
E’ un flusso che va regolato, certo – come ormai sembra evidente che andrebbe fatto anche per quanto riguarda la finanza – ma in un modo che rispetti la legalità internazionale e l’umanità. E nello stesso tempo cercando di collaborare per affrontare alla radice gli squilibri politici ed economici che producono queste traumatiche e massicce migrazioni. Davvero siamo sorpresi che si cerchi disperatamente di fuggire dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia, da Myanmar?
Un duplice compito certamente difficile, ma ineludibile.
Nel Mediterraneo, ma non solo.