domenica 10 maggio 2015

La Stampa 10.5.15
Chi ha paura di Pierre, il Melville scandaloso e intraducibile?
Torna il romanzo più sfortunato dello scrittore americano, nella storica versione di Luigi Berti al centro di una intricata vicenda editoriale negli Anni Quaranta
di Mario Baudino


«Signore: siete un imbroglione. Con il pretesto di scrivere per noi un romanzo popolare, avete ricevuto del denaro in acconto, mentre avete consegnato alla nostra tipografia i fogli d’un’empia tiritera plagiata da quei vili atei che sono Luciano e Voltaire». Non si sa se Herman Melville ricevette davvero una lettera simile da un editore, nella non fortunatissima vita di scrittore: in ogni caso la fece puntualmente recapitare a un suo personaggio, il giovane protagonista di Pierre, o le ambiguità, che vive precariamente in una specie di famiglia allargata fra amori multipli, e tenta la sorte come romanziere.
La lettera pare un beffardo riferimento all’accoglienza che l’autore di Moby Dick, sempre pessimista e anzi un pochino lamentoso riguardo alla sorte delle proprie opere, si attendeva da questo libro, una storia non priva di trionfi gotici e di provocazioni non solo letterarie, per di più senza mare e senza marinai, pubblicata con scarso successo nel 1852, un anno dopo il capolavoro. Vendette pochissimo e fu presto dimenticato, tanto che per una traduzione italiana si dovette aspettare l’Einaudi degli Anni Quaranta, e da allora non è stato molto ristampato. Presente nelle Opere mondadoriane (ma solo nei Meridiani degli Anni Settanta) non figura ad esempio nella versione economica degli Oscar, pubblicata nel ’91. Ora l’editore Medusa lo ripropone, nella storica traduzione di Luigi Berti rivista dal curatore Vincenzo Fidomanzo, ricostruendo anche un’intricata vicenda editoriale.
L’elemento femminino
Pierre non è un libro maledetto, ma certo ha avuto vita difficile. Melville ha costruito un’opera tramata su una potente retorica letteraria, chiamando a raccolta Milton, Shakespeare e Dante, e utilizzando ancor più che in Moby Dick la sua tastiera linguistica e simbolica, senza risparmio. Il risultato, come scrive Claudio Gorlier nella prefazione, è un romanzo che segna una svolta, consistente soprattutto nella «comparsa imperiosa del femminino». In un’atmosfera dove seduzione e fantasie incestuose sembrano guidare una danza macabra (non priva di luciferini piaceri) il giovane Pierre «precipita» dall’ambigua Arcadia della campagna americana all’inferno di New York.
È un ragazzo di ottima famiglia e ottima educazione, sensibile e fidanzato con una bella coetanea, Lucy. Tutto sembra andare per il meglio, ma improvvisamente tutto crolla perché si presenta Isabel, una assai perturbante sorellastra, o presunta tale, che rivendica una parte dell’eredità paterna. A questo punto il gioco delle ambiguità diventa vorticoso. Pierre, che ne è molto attratto, fa credere di averla sposata, la madre lo caccia di casa, i due riparano a New York fra bohémien intellettuali dove Pierre immagina per sé una carriera di scrittore. Vengono raggiunti da Lucy che è ancora innamorata, vivono insieme fra ogni genere di ristrettezze, e il giovanotto oberato di debiti, variamente perseguitato, commette una pazzia. Uccide un ex amico, e si uccide in carcere. Ma insieme a Isabel, che gli ha portato il veleno, e a Lucy, che è stroncata dallo shock.
Linguaggio complesso
Il romanzo si chiude con tre cadaveri, in un’atmosfera byroniana. C’era indubbiamente di che scandalizzare i contemporanei, ma anche i posteri, e scoraggiare per la complessità di trama e linguaggio gli editori a venire. Non però Giulio Einaudi, che nel momento in apparenza meno propizio decise un’operazione editoriale ambiziosa, non priva di una vena di follia. Tutto cominciò nel maggio del ’39. Era uscito al proposito sul Corriere della Sera un articolo di Emilio Cecchi e l’editore ne era stato evidentemente colpito. Scrisse a Luigi Berti, che già aveva tradotto Thackeray e chiedeva altri lavori, formulando una vaga proposta, «anche se non vorrei che dell’idea si fosse già appropriato Bompiani». Gli domandava di «informarsi della cosa» e fargli sapere.
Berti (livornese trapiantato a Genova, uomo di mare oltre che di lettere) ha bisogno di lavorare. Il guaio è che non conosce Pierre e non sa come procurarselo. Si arrabatta, e infine comunica di averlo fatto chiedere in prestito, tramite amici, allo stesso Cecchi. L’illustre critico aveva scritto però che «il lettore comune, davanti a molte pagine di Pierre, o si stropiccerà gli occhi come se avesse le traveggole, o francamente si metterà a ridere, credendo a uno scherzo». Bisognava decidere: sarà davvero traducibile? Einaudi non ha fretta; Berti sì. E dunque comunica senza indugi che il libro è «traducibile e leggibile».
Un’impresa travagliata
Ma quella che dovrebbe essere una traduzione fulminea va per le lunghe, persino la «dattilografatura» è particolarmente «laboriosa». L’Europa è in guerra, l’orizzonte è fosco. Ma ci si batte per Melville. Forse la traduzione non va bene, forse Berti si è «sforzato di rendere più sciolta e rapida la versione»: e questo non è un complimento. «Perché semplificare le complicate costruzioni barocche», incalza Giulio Einaudi, «perché abolire aggettivi o avverbi minuziosamente stillati; perché impoverire, volgarizzandole, quelle concettose immagini così caratteristiche di Pierre?».
Berti si indigna, protesta, e alla lunga si piega: anche perché gli sono state accreditate altre 400 lire per la «dattilografatura», oltre al compenso promesso, 2000 lire, che in parte ha ricevuto e in parte attende. Alla fine traduttore e editore riescono a non litigare oltre il consentito. Pierre esce nel marzo del ’42, con una bella sovraccoperta di Francesco Menzio. Impresa gigantesca, è stata una delle più lunghe e travagliate edizioni del Novecento italiano. Ed è già un buon motivo, Cecchi o non Cecchi, per rimetterla alla prova.