domenica 10 maggio 2015

La Stampa 10.5.15
Philippe de Montebello
Ex direttore del Metropolitan Museum di New York
“Avvicinatevi di più ai dipinti oppure non li capirete”
intervista di Alain Elkan


«Dopo 31 anni come direttore del Metropolitan Museum di New York ho deciso che era tempo di insegnare la mia lunga esperienza e la vita nel mondo dell’arte».
Philippe de Montebello è in gran forma, seduto in una delle sale del Nyu Institute of Fine Arts, che era la casa di Doris Duke, una sorta di villa in stile francese sulla Fifth Avenue, a pochi isolati dal Metropolitan.
Philippe, le piace insegnare?
«Molto. È il mio sesto anno e ho avuto buoni giudizi dagli studenti».
Cosa insegna?
«A grandi linee la storia e la cultura dei musei, a partire dall’antichità fino a oggi, perché bisogna partire con il collezionismo. I musei cominciano a esistere solo alla fine del XVIII secolo, quando le collezioni sono organizzate secondo principi storici e artistici e l’accesso è ampliato oltre una élite limitata. Amo insegnare perché s’impara sempre. Al Met continuavo a imparare. Ogni curatore che mi presentava un’acquisizione in effetti m’impartiva un mini-seminario. E in ogni campo. Molto gratificante».
Sono in molti oggi a studiare la storia dell’arte?
«Lo stesso numero di sempre e certamente in numero sufficiente a coprire i posti di lavoro. La maggioranza sono donne e per lo più studiano l’arte moderna o contemporanea. L’interesse smisurato per il contemporaneo si riflette nei musei, anche quelli tradizionali, musei enciclopedici che creano conversazioni tra il vecchio e il nuovo, più o meno discutibili».
Non solo insegna, ma ha anche un programma settimanale su Pbs che s’intitola Nyc-Arts: di cosa si tratta?
«Presento i vari eventi d’arte a New York e intervisto gli organizzatori. Il programma comprende tutte le aree dalle arti. Sono una sorta di Guida Michelin».
Il linguaggio in tv dev’essere diverso da quello in classe?
«Assolutamente. C’è un vocabolario accademico che è diverso, specialistico, e non può essere utilizzato per comunicare con il pubblico».
New York è ancora affascinante per le arti in generale?
«Se si includono tutte le arti, credo che New York, Londra e Parigi restino le principali capitali culturali».
Non ha mai pensato di tornare in Francia?
«Mi capita spesso di andare in Francia. Gran parte della mia famiglia è lì. Per quattro anni ho fatto parte del consiglio del Museo d’Orsay e sono ancora in quello del Prado di Madrid. Così viaggio molto».
Lei è anche diventato il presidente del Consiglio della Hispanic Society of America?
«Sì, è un notevole museo di arte spagnola e latinoamericana con capolavori di Velázquez, El Greco, Goya e molti altri. Voglio aumentarne la visibilità. Ha una grande collezione, che è un tesoro nascosto».
Le manca il Met?
«L’unica cosa che mi manca è il processo di acquisizione, perché al Met potevo assecondare il mio istinto di collezionista per procura».
Sta scrivendo un libro?
«Ho pubblicato per Thames and Hudson un libro, “Rendez-vous With Art” che ho scritto con Martin Gayford, e ne ho in progetto altri, ma sono più un docente che uno scrittore».
Di cosa le piace occuparsi?
«Mi piace parlare di opere d’arte. Sono diventato un curatore perché volevo essere vicino all’arte, alla sua fisicità. L’arte non si può toccare, ma i visitatori dei musei dovrebbero stare più vicino ai dipinti. A una distanza troppo grande un dipinto diventa un’immagine».
Che relazione c’è tra Internet e l’arte?
«È utile per fornire una buona informazione, ma non si può fare esperienza dell’arte su Internet. Per lo più leggo libri. E consiglio ai miei studenti non solo di conoscere Plinio il Vecchio o Vasari, ma di leggerli. Solo in questo modo è possibile assaporare l’atmosfera del tempo e comprendere il vero significato. Inoltre, in un momento in cui c’è così tanto gergo, faccio leggere loro autori come Roberto Longhi in italiano o in una buona traduzione. Mi piace l’autenticità».
È vero che non è molto interessato all’arte contemporanea?
«Interessato sì, impegnato no. Si tratta di un campo specialistico, di un mondo chiuso, e non riesco a tenere traccia delle centinaia di nuovi nomi che ne entrano a far parte. Né so quale inquadramento critico utilizzare per giudicare quello che vedo».
Traduzione di Carla Reschia