domenica 10 maggio 2015

Corriere 10.5.15
I meriti di Alfredo Pizzoni partigiano dimenticato
risponde Sergio Romano


Nei giorni delle commemorazioni per i 70 anni dalla Liberazione ho sentito innumerevoli pareri, testimonianze e ricordi di personaggi più o meno noti, ma non ho sentito una sola parola in ricordo di Alfredo Pizzoni che credo sia stato un grande protagonista del movimento di Liberazione. Lei mi può dire qualche cosa di più?
Gianmaria Carozza

Caro Carozza,
Quando fece il suo ultimo viaggio segreto al Sud, prima del 25 aprile 1945, Alfredo Pizzoni ebbe una lunga conversazione con Harold Macmillan, il ministro del governo britannico che aveva il compito di rappresentare il suo Paese nel Mediterraneo durante la fase definitiva del conflitto. Nelle sue memorie Macmillan descrive l’ interlocutore italiano (allora noto con il nome clandestino di Pietro Longo) come un «banchiere grasso, giovale e amabile (…) di buon senso e di forti sentimenti patriottici, che non si dà delle arie come è usuale negli italiani, ed è anzi privo di quelle capitali caratteristiche italiane che sono la boria, il parlare a vanvera e la vanità arrogante». Longo-Pizzoni gli disse che occorreva «cercare di moderare piuttosto che scartare l’estrema sinistra». Aggiunse che i comunisti «preferirebbero liberarsi di lui» e dette qualche consiglio sul modo in cui trattarli dopo la fine della guerra. Disse anche che non intendeva «stare in politica» e che voleva tornare ai suoi affari.
Ufficialmente Pizzoni non era allora presidente del Cnlai (Comitato nazionale di liberazione dell’Alta Italia), ma, più semplicemente, l’uomo che ne presiedeva le riunioni clandestine. Era stato scelto dai partiti perché non era in concorrenza con i rappresentanti delle maggiori formazioni politiche (comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, liberali), aveva buoni contatti con gli ambienti economici ed era in grado di ottenere l’aiuto finanziario degli industriali, delle banche e degli Alleati.
Ma nei giorni che precedettero la fine del conflitto, la principale preoccupazione dei partiti (non soltanto dei comunisti e dei socialisti) era quella di assumere immediatamente, dopo la fase badogliana e quella transitoria del governo Bonomi, la direzione politica del Paese. Mentre Pizzoni era ancora al Sud, Pertini ricordò bruscamente, durante una riunione del Cnl, che Pizzoni non era mai stato, istituzionalmente, «presidente» e che occorreva presentare agli Alleati, non appena fossero giunti nell’Italia del Nord, un organo politico. Temeva probabilmente che gli inglesi e gli americani, in caso contrario, avrebbero fatto del patriota banchiere il loro principale interlocutore nelle regioni settentrionali.
Credo, caro Carozza, che gli argomenti politici di Pertini fossero, nella sua prospettiva, comprensibili. I partiti volevano valorizzare la Resistenza e se stessi per evitare che l’occupazione militare anglo-americana diventasse anche una occupazione politica. Sappiamo che alcuni membri del Cnl avevano altre lealtà (l’Unione Sovietica, la Chiesa), non sempre compatibili con la sovranità nazionale, ma il ritorno ai partiti era allora un passaggio obbligato per il ritorno alla democrazia. L’«espulsione» di Pizzoni, quindi, era in quel momento necessaria e inevitabile. Non era necessaria e inevitabile, invece, l’espulsione di Alfredo Pizzoni dalla memoria della Resistenza. Sul dovere di riconoscere che aveva servito il Paese coraggiosamente in uno dei momenti più tragici della storia nazionale, prevalse invece la pretesa di trattare la Resistenza con spirito monopolistico. Non capirono che il ricordo di Pizzoni avrebbe contributo a renderla un valore nazionale. Fortunatamente esiste ora un libro di Tommaso Piffer pubblicato da Mondadori nel 2005: Il banchiere della Resistenza, il protagonista cancellato della guerra di Liberazione .