domenica 10 maggio 2015

La Stampa 10.5.15
Tel Aviv, gli ultimi giorni dell’umanità Tamar
Chiude il mitico caffè ritrovo dell’élite intellettuale e politica di sinistra: rispecchiava i valori di rinascita ebraica della città
di Elena Loewenthal


Difficile immaginare un locale meno accogliente: tavoli spaiati e per lo più traballanti, ricoperti di formica dagli angoli immancabilmente scrostati, con il compensato a vista. Sedie disposte casualmente qua e là. Mensole con ninnoli ricoperti di polvere ristagnata e umidiccia. Bancone spoglio e così largo che sembra più da macellaio che da bar. Generi di conforto in esposizione? Poco o nulla. Qualche pezzo di pasticceria che ricorda la mitica bignola «Luisona» del Bar Sport di Stefano Benni, quella che sta lì da decenni finché un incauto rappresentante di passaggio la agguanta e se la mangia giusto per accusare un prevedibile e preoccupante malore alle prime avvisaglie di mancata digestione. Vetri opacizzati da una pulizia approssimativa per quanto decorosa, un dehors a dir poco minimalista.
Eppure il caffè Tamar, al numero 57 di via Shenkin, Tel Aviv, è un’icona non solo della città ma di tutto Israele. O meglio, di una certa parte di Israele, che è un Paese tanto piccolo quanto variegato, carico di realtà in perpetua opposizione fra loro. E almeno negli ultimi 59 anni, il caffè Tamar è stato il simbolo nonché il luogo di ritrovo della sinistra israeliana, di un mondo intellettuale tutto telaviviano, a mezza strada tra il pionierismo e lo snobismo, tra l’impegno e il sogno.
Scalcinato e riverito
Merito soprattutto della sua patronessa che oggi, alla bella età di novant’anni, ha deciso di chiudere il locale e ritirarsi. «Così avrò più tempo per i miei pronipoti», ha dichiarato Sarah Stern all’indomani della annunciata chiusura, assediata dalla stampa nazionale che di questa vicenda ha riempito prime pagine, e giustamente perché è una notizia che conta, che nel suo piccolo cambierà un poco il mondo. Se non altro il volto di Tel Aviv, città sempre più godereccia e (forse) meno intellettuale, sempre più avveniristica e meno nostalgica.
Prima che il caffè Tamar chiuda davvero c’è ancora qualche settimana di tempo per fare un salto in Shenkin angolo Ahad Haam, nel cuore della Tel Aviv storica e storicamente bohémienne, là dove il grande Yaakov Shabtai faceva le sue solitarie passeggiate. Sarah Stern vale davvero il viaggio, con quel suo volto intenso e l’espressione arcigna – mai che ti regali un sorriso, ma quello è il suo bello. Le labbra sempre dipinte di un rosso vivo, gli occhi con un fondo di ebraicissima malinconia, Sarah è una via di mezzo fra una balabuste, l’imperiosa massaia yiddish, e la benevola tenutaria di quelle case che non esistono più. Conobbe suo marito Abraham nei ranghi dell’esercito britannico, fra le sabbie dell’Egitto, durante la seconda guerra mondiale. Il caffè Tamar aveva aperto già nel 1941, ma la coppia lo rilevò nel 1956. Dieci anni dopo Abraham non c’era più e da allora il locale ha riempito la vita di questa donna tenace e poco loquace ma con la testa e il cuore e gli occhi sempre vigili. Qui venivano e vengono ancora scrittori – Yoram Kaniuk, Dudu Busi – attori, giornalisti, artisti. Anche il giudice Hanan Efrati, che nel locale e fra le braccia di Sarah si è sentito a casa per decenni.
Ma la figura più presente in questo locale «scalcinato, stigmatizzato, elogiato, riverito e patetico», come scrive Maoz Azaryahu nella sua Mitografia di Tel Aviv, è certamente il compianto Yitzhak Rabin. Che è ricordato in tutta una iconografia fatta di immagini del suo volto e stickers in memoria, primo fra tutti il «Shalom Chaver», «Salve Compagno», con cui è stato pianto da milioni di israeliani. La sua vedova, Leah, veniva anche lei non di rado al caffè Tamar.
«Qui si decidono destini»
Difficile tentare una biografia collettiva della realtà umana che si ritrovava qui, a discutere, leggere i giornali, fumare, sperare e arrabbiarsi. Soprattutto, a ritrovare Sarah e quella atmosfera terribilmente trasandata che sembra dire: «Non badate all’apparenza ma alla sostanza. Qui c’è vita vera. Qui si decidono destini». Oggi il vintage va di moda, ma il caffè Tamar lo è sempre stato, con la naturalezza di un’identità inconfondibile. L’élite intellettuale e artistica che lo frequentava era snob e spartana al tempo stesso. Si riconosceva pienamente nei valori di rinascita ebraica che Tel Aviv esprime con la sua stessa esistenza: la città è venuta al mondo una mattina d’aprile del 1909 sulla sabbia, e da allora ha saputo costruirsi non solo una storia ma anche e forse soprattutto una sua straordinaria mitologia vivente, fatta di angoli di strade, del primo lampione a gas impiantato su viale Rothschild, di pigri e immensi Ficus benjamina.
Il caffè Tamar è stato un mito nel mito: un luogo dall’apparenza insignificante, anzi respingente – non ha alcun appeal estetico né tanto meno gastronomico e la faccia di Sarah è tutto fuorché rassicurante –, eppure cruciale nella vita della città. Però è un posto dove si può star seduti tutto il giorno al prezzo di un acquoso caffè, dove si ha la certezza di orecchiare una discussione sui massimi sistemi, su Dostoevskij, sull’ultima malefatta del governo – o, più probabilmente, su tutti e tre gli argomenti insieme.
Gli «orfani» si attrezzano
Nell’era degli smartphone e della connessione continua, il caffè Tamar è uno strano luogo dove si parla e si ascolta. Anche se i suoi futuri orfani si stanno attrezzando con un gruppo Whatsapp intitolato «I profughi del Tamar» – non si capisce se di autoaiuto, consolazione o tentativo di soluzione. Ma è certo che, qualunque cosa succeda in futuro in quell’angolo di strada – c’è già chi paventa macerie edilizie e cantiere per l’ennesimo grattacielo, vista la posizione –, il caffè Tamar resta un pezzo di storia della città, un luogo imperdibile che senza Sarah Stern non sarà mai più lo stesso, con buona pace di intellettuali nostalgici, artisti disorientati, esponenti della sinistra in crisi di identità.