Corriere La Lettura 10.5.15
Il grande balzo all’indietro del lavoro
Precarietà, niente diritti, scarsa tutela previdenziale, «pluriattività»: la condizione odierna dei giovani ricorda quella degli operai un secolo fa
Due volumi sulla storia del Novecento
di Antonio Carioti
Si direbbe un Ritorno al futuro , ma è assai meno divertente del film diretto trent’anni fa da Robert Zemeckis. Benché l’Italia sia cambiata da cima a fondo, oggi la condizione lavorativa dei giovani somiglia a quella dei loro avi ai primi del XX secolo. Impiego precario, diritti al minimo, scarsa o nulla copertura previdenziale. E un’altra caratteristica che in gergo è chiamata «pluriattività»: si svolgono tanti lavoretti, spesso di carattere occasionale o stagionale, per integrare un reddito magro e avere una sorta di paracadute in caso di perdita del posto.
Lo spiega a «la Lettura» Stefano Musso, curatore dei due volumi su Il Novecento (il primo va dal 1896 al 1945, il secondo arriva al 2000) con cui esordisce a Torino la Storia del lavoro in Italia dall’età romana ai nostri giorni dell’editore Castelvecchi. «Un secolo fa — osserva Musso — l’Italia cominciava a industrializzarsi, ma avevano un enorme rilievo fenomeni come il bracciantato, instabile per definizione. E i ritmi stessi del lavoro nei campi imponevano lo svolgimento di più attività: abitudine che poi gli agricoltori inurbati mantenevano dopo aver lasciato le campagne. Del resto anche in città la precarietà occupazionale era la regola, per cui minute attività artigianali o di servizio erano assai diffuse, come assicurazione contro il rischio di perdere l’impiego da un giorno all’altro».
Ora invece la globalizzazione, scrive Musso nell’introduzione al secondo volume del Novecento , «ha segnato un salto in negativo della condizione dei lavoratori», fra contratti atipici e «rapporti di subordinazione mascherati da lavoro autonomo (le false partite Iva)». Quindi le nuove generazioni sono spesso costrette «a una estenuante pluriattività, alla ricerca di fonti sparse di sostentamento».
Tra l’altro un secolo fa l’Italia viveva una fase di rapida crescita, che la riportò «al centro del mondo sviluppato» e permise poi l’introduzione delle prime leggi per la tutela dalla disoccupazione e l’obbligatorietà dell’assicurazione di vecchiaia, tra il 1919 e il 1921. Adesso invece stentiamo a uscire da una lunga recessione e le opportunità occupazionali scarseggiano.
Viene quasi da pensare che il periodo del capitalismo fordista, con la stabilità dell’impiego e le provvidenze sociali, sia stato una sorta di parentesi che si va chiudendo. Musso però invita alla cautela: «Cento anni di costruzione del Welfare non si possono cancellare. Ma bisogna adeguarne gli istituti a un’era d’innovazione tecnologica spinta. È un’assoluta urgenza, perché oggi molti giovani vivono consumando risorse accumulate dai genitori: quando quel capitale si esaurirà, potrebbero sorgere tensioni fortissime».
Non dimentichiamo che i conflitti del primo Novecento sfociarono nel fascismo: «Dal punto di vista del lavoro — ricorda Musso — il regime conosce due fasi distinte. In un primo tempo c’è una compressione dei salari che lo caratterizza in senso antioperaio. Ma dopo la grande crisi del 1929 il fascismo cerca di ottenere il consenso dei lavoratori, potenzia l’attività sindacale e le tutele».
Proprio in quella fase, all’insegna della conciliazione tra nazione e lavoro, nasce il progetto cui l’iniziativa di Castelvecchi si collega idealmente. Ne parla a «la Lettura» Fabio Fabbri, coordinatore dell’intera opera: «Lo storico Luigi Dal Pane avviò una collana sulla storia del lavoro in Italia. Uscì nel 1944 un suo libro che trattava del Settecento, spingendosi fino al 1815. Un altro, sul periodo dalla fine del XV secolo agli inizi del XVIII, venne pubblicato da Amintore Fanfani. Noi abbiamo deciso di riprendere quell’intuizione con un’opera in sette volumi. Oltre ai due sul Novecento, in uscita il 13 maggio, ne avremo uno sull’età romana, uno sul Medioevo, uno sull’età moderna e uno sull’Ottocento. Infine il settimo sulle fonti».
Ovviamente l’ottica è diversa da quella degli anni Quaranta, ma l’idea, aggiunge Fabbri, non è neppure quella di concentrarsi solo sulla condizione dei lavoratori, il loro sfruttamento e le loro lotte: «Vogliamo assumere il lavoro come il punto di vista da cui studiare l’evoluzione della civiltà umana, come l’attività nella quale si dispiegano le esigenze delle diverse società in ogni campo. Per esempio il volume sull’epoca romana che uscirà in dicembre, curato da Arnaldo Marcone, non tratterà solo della schiavitù. Racconterà il lavoro dei teatranti, degli oratori, dei medici. Analizzerà il mestiere del soldato e le attività della sfera religiosa».
Lo stesso vale per la parte sul Novecento, sottolinea Musso: «Abbiamo raccolto contributi di storici, sociologi e giuristi. Ci occupiamo dei lavoratori dipendenti, ma anche degli imprenditori e degli artigiani. Vasto spazio è dedicato alle migrazioni e al lavoro femminile. Ripercorriamo le diverse fasi delle relazioni industriali, in Italia più conflittuali rispetto al resto d’Europa, nonostante la cultura produttivista di gran parte del movimento operaio. Ma ricostruiamo anche le vicende del pubblico impiego». Sullo sfondo c’è la tesi che sia necessaria una rivalutazione del lavoro: «Non è solo una questione di giustizia sociale: per rilanciare la domanda, i consumi e la produzione, serve un incremento dei redditi da lavoro, che peraltro, in un’epoca di globalizzazione, è realizzabile solo con politiche di respiro internazionale».