Il Sole Nova 31.5.15
A che punto è la fusione nucleare
Per il nuovo direttore generale Bernard Bigot la domanda è «possiamo permetterci di non provare ad avere questa frontiera?»
di Alessandra Viola
Energia pulita e sicura, economica e virtualmente illimitata. È la promessa della fusione nucleare: una speranza - secondo le ultime stime disponibili - che per trentacinque nazioni del mondo, in cui vive più di metà della sua popolazione, vale venti miliardi di euro. A tanto ammonterà il costo complessivo dell'International termonuclear experimental reactor (Iter), gigantesco esperimento in costruzione nel sud della Francia che dovrà dimostrare la fattibilità scientifica e tecnologica della fusione termonucleare.
Un progetto che coinvolge sette partner (Unione europea, Stati Uniti, Cina, Russia, India, Corea e Giappone), e che dopo una ventennale programmazione ha preso il via nel 2006. Anche se il cantiere di Cadarache, in Provenza, è ancora quasi solo un grande buco nel terreno (i lavori sono appena al 20%), Iter impressiona già per numero e qualità delle sfide che pone. «Abbiamo un'opportunità unica: un progetto globale di ricerca che potrebbe cambiare la vita dell'umanità - dice Bernard Bigot, nuovo direttore generale insediatosi in marzo -. È una grande sfida che presenta problemi non solo di natura tecnologica, ma anche politica e gestionale: coordinare tante persone di nazionalità e culture diverse è complesso almeno quanto far funzionare assieme le parti meccaniche sviluppate da centinaia di aziende differenti. Ogni giorno di ritardo costa un milione di euro: il vero rischio dunque non è tecnologico ma è quello di dimostrare che non siamo stati dei buoni manager. Se non dovessimo riuscire, come faremo? Quale energia potremo utilizzare nel prossimo secolo senza devastare il pianeta?».
I lavori a Cadarache procedono di buona lena, anche se una nuova agenda temporale, che prevedibilmente farà slittare i tempi per l'inizio degli esperimenti alla fine del prossimo decennio, sarà resa nota in novembre. Del resto le dimensioni di Iter, il più grande progetto di cooperazione internazionale al mondo dopo la Stazione spaziale, spiegano i ritardi: alto come un palazzo di dieci piani, avrà una vita di settant'anni e peserà 23mila tonnellate, come tre torri Eiffel. Lo scopo di questa enorme macchina è ambizioso quanto le sue misure: accendere il Sole sulla Terra, imbrigliarlo e usarlo per produrre l'energia più pulita che sia mai stata disponibile per l'uomo. Un Sole in scatola, che dovrebbe aiutarci a garantire la nostra sopravvivenza sul pianeta evitando inquinamento atmosferico, emissioni di gas serra e persino possibili guerre per accaparrarsi scarse risorse energetiche. Iter dovrà produrre dieci volte più energia (500 MW) di quella necessaria per il suo funzionamento (50MW). Lo farà fondendo tra loro nuclei di deuterio e trizio (due isotopi dell'idrogeno che verranno portati allo stato di plasma, gas caldissimo e carico elettricamente), ottenendo come sottoprodotti l'innocuo elio e un neutrone (per ogni reazione).
Le sfide tecnologiche per la costruzione del reattore sono innumerevoli: ogni singola cosa, in un tokamak (così si chiama il campo magnetico a forma di ciambella in cui viene “ingabbiato” e riscaldato il plasma per costringere gli atomi a scontrarsi tra loro) di queste dimensioni, è complicata. Facciamo qualche esempio. Alcuni componenti sono talmente grandi da non poter viaggiare su strada, quindi dovranno essere costruiti in loco. Altri dovranno resistere a carichi termici e temperature critiche: dai 150 milioni di gradi del cuore del plasma ai 400 gradi del mantello che lo circonderà, fino ai -269 gradi che dovranno essere assicurati dai magneti ai loro superconduttori. Sbalzi termici che si susseguono in pochi metri e sarebbero in grado di mandare in tilt qualsiasi macchinario, che renderanno necessario ingegnerizzare i materiali per renderli resistenti al calore e anche alle fortissime sollecitazioni cui verranno sottoposti dagli urti con i neutroni in movimento generati dalla fusione. Poi c'è il sistema di controllo remoto, che si rende necessario perché una volta acceso il reattore non sarà più possibile accedervi fisicamente. E infine il campo magnetico, oltre 200mila volte più potente di quello terrestre, in cui ingabbiare il plasma, “combustibile” volatile e sfuggente della fusione che raggiungerà 10 volte la temperatura del Sole.
Se il livello delle sfide è altissimo, quello delle promesse lo è però altrettanto: produrre per un anno un GigaWatt di energia con una centrale a fusione richiederà come combustibile 300 chili di litio (quello delle batterie) e 150 di deuterio, elementi che in pratica si ottengono da acqua e sabbia. Niente scorie di lunga durata, come quelle della fissione. Le centrali a fusione sono poi intrinsecamente sicure: nel reattore è presente pochissimo combustibile (circa un grammo contro le oltre 100 tonnellate della fissione) e in caso di malfunzionamento il plasma semplicemente si spegne, senza alcun rischio di derive incontrollate. Persino il peggiore scenario possibile, quello di un incendio nel deposito del trizio - dicono gli esperti - avrebbe sull'ambiente un impatto minore di quello della radioattività naturale. «Cinquant'anni (tanti ne occorreranno per verificare la fattibilità tecnologica e la convenienza economica della fusione anche grazie a Demo, il reattore sperimentale “figlio” di Iter la cui costruzione inizierà nel 2040, ndr) sembrano tanti e a volte mi chiedono: in questo lasso di tempo, la ricerca non potrebbe fare tali avanzamenti da rendere la fusione e Iter obsoleti? - continua Bigot - Io rispondo che sarebbe un grandissimo successo se questo avvenisse, anche se a quanto mi risulta il Sole non è mai divenuto una tecnologia obsoleta. Le rinnovabili, da sole, non potranno soddisfare i bisogni energetici del pianeta nei prossimi decenni né possiamo continuare a bruciare combustibili fossili. La domanda quindi non è se possiamo permetterci la fusione, ma se possiamo permetterci di non provare ad averla».