Il Sole Domenica 3.5.15
Psicoterapie
Aria nuova in casa Freud
di Vittorio Lingiardi
Avevamo apprezzato le capacità argomentative e la verve polemica di Maurilio Orbecchi nel suo scritto introduttivo alla recente traduzione italiana di una storica conferenza sulla psicoanalisi che Pierre Janet tenne a Londra nel 1913 (ne ho parlato su queste pagine il 23 marzo 2014). Lo psichiatra torinese torna sul luogo del delitto in un volume dal titolo volutamente ossimorico, Biologia dell’anima, dove affronta in modo sistematico (ma con peculiari omissioni, per esempio i sogni) i concetti fondamentali delle psicologie del profondo, freudiana e junghiana, con l’intento di metterne a nudo superstizioni, dogmatismi, «congetture speculative», incongruenze epistemologiche. Rottamatore di psicoanalisti d’antan, Orbecchi invoca l’aggiornamento di un linguaggio obsoleto e la riformulazione di concetti fondativi come inconscio, complesso edipico, transfert o, sul versante junghiano, archetipi. Tutto questo in nome di una prospettiva non teleologica né antropocentrica, attenta all’insegnamento di Darwin e ai più recenti contributi della psicologia evoluzionistica, della teoria dell’attaccamento, dell’etologia e delle neuroscienze cognitive. È necessario, dice Orbecchi, «seppellire i morti viventi» (non solo Freud e Jung, ma anche Melanie Klein, Anna Freud, Bion) e risvegliare i «sepolti vivi» (quegli autori oscurati dallo strapotere del paradigma freudiano come William James e il prediletto Janet).
Biologia dell’anima è un libro brillante, e i clinici che lo leggeranno potranno trarre stimoli utili a rinnovare il loro linguaggio e ad ampliare i loro interessi scientifici. Ma, a tratti, Orbecchi è reattivo, incline al pamphlet e non abbastanza paziente per leggere gli autori in una prospettiva storico-culturale. Se quella viennese era una psicoanalisi al singolare, oggi è inevitabile chiedersi di quale psicoanalisi stiamo parlando. C’è il rischio, infatti, di scambiare un manipolo di conservatori per un esercito di zombies, e di combattere un tipo di psicoanalisi di fatto sul viale del tramonto, senza tener conto delle trasformazioni e delle invalidazioni a cui la psicoanalisi contemporanea è andata incontro (spesso, va detto, puntando i piedi). Dal mio vertice di osservazione posso testimoniare che sono pochi i giovani futuri psicoanalisti che tengono sul comodino le foto di Freud o di Jung e vivono immersi nel pantano del dogmatismo religioso paventato da Orbecchi. Piuttosto, i loro scaffali sono pieni di libri di Mitchell, Fonagy, Bromberg, Wallin, Schore (The science of the art of psychotherapy!). La maggior parte ha un atteggiamento vivace e critico nei confronti dei padri fondatori (pur con qualche giovanile nostalgia per epoche mitologiche di padri onniscenti) e, pur amando la forza narrativa intrinseca a ogni impresa psicoanalitica (teorica o clinica che sia), esprime interesse per le neuroscienze, la psicopatologia evolutiva o i gender studies, tanto per citare alcune discipline con cui oggi dialoga la parte migliore della psicoanalisi. «Non si deve lasciare una specialità così importante come la psicoterapia in mano a scuole private», dice Orbecchi. Lasciamo, dico io, che la psicoterapia sia insegnata, oltre che naturalmente nelle università, anche in scuole private, ma cerchiamo di garantire che privato non significhi idiosincratico, antiscientifico o indimostrabile. È questo lo sforzo in cui siamo impegnati nella Commissione ministeriale per la valutazione dell’idoneità delle scuole di specializzazione in psicoterapia.
Quando Orbecchi scrive: «interpretare fantasie, sogni, lapsus e transfert, permettere al paziente di affrontare fantasie sessuali “insostenibili”, far riemergere i traumi alla coscienza: oggi non sembrano più questi i principali fattori della cura», oppure «la psicoterapia è più una costruzione attiva di un modo di sperimentare se stessi con gli altri che la narrazione ricostruttiva di un passato rimosso», dice qualcosa che molti psicoanalisti contemporanei condividono. Basta leggere il programma di un convegno internazionale di psicoanalisi (quello annuale dell’American Psychoanalytic Association che si è svolto lo scorso gennaio a New York, o quello dell’International Psychoanalytic Association che si terrà il prossimo luglio a Boston) per constatare il crescente spazio dedicato ai temi cari a Orbecchi (e anche a me): sistemi motivazionali, temperamento, infant research, esperienze traumatiche, attaccamento, alleanza terapeutica, diagnosi, ricerca empirica ecc. Non credo che la decisione della Società Psicoanalitica Italiana di assegnare il premio Musatti 2014 a Vittorio Gallese sia stata una furba concessione all’air du temps. Penso, piuttosto, un riconoscimento all’importanza del dialogo tra discipline biologiche e psicologiche. E forse anche un modo per «riparare» i danni causati da una concezione dogmatica e autoreferenziale della psicoanalisi, quella che Fonagy nel 2003 aveva definito un «non così splendido isolamento».
Maurilio Orbecchi, Biologia dell’anima. Teoria dell’evoluzione e psicoterapia, Boringhieri, Torino, pagg. 188, € 18,00