Il Sole 9.5.15
Istruzione. A 18 anni dalla legge Berlinguer siamo ancora più o meno allo stesso punto
Senza valutazione non è una vera riforma
di Luisa Ribolzi
Nel gennaio del 1997, l’allora ministro Luigi Berlinguer inviò a un gruppo di esperti e operatori della scuola una bozza di documento sulla riforma dei cicli, avviando una fase di consultazione che doveva chiudersi con la legge 30 del febbraio 2000, che non completò il suo iter a causa della caduta del governo. Diciotto anni, sei ministri e alcune riforme più tardi, siamo più o meno allo stesso punto: stiamo discutendo un disegno di legge che, secondo una radicata ma deplorevole abitudine italica, si presenta non come una serie programmata di miglioramenti, finalizzati a raggiungere obiettivi specifici, pochi e chiari, ma come la soluzione magica dei problemi della scuola. Ciascuno dei ministri intercorsi ha proposto una sua legge o delle variazioni alla legge precedente, a volte è anche riuscito a farla approvare (la legge Gelmini), ma evidentemente con scarso successo, se ogni volta si ricomincia da capo o quasi: il che rende francamente poco fruttuoso esprimere un parere su di un documento non definitivo e la cui decretazione potrebbe tardare indefinitamente (per esempio, aspettiamo i regolamenti di riforma del sistema delle accademie e dei conservatori dal dicembre del 1999).
Dal mio punto di vista di sociologa dell’educazione, i motivi di questo eterno ritorno dell’uguale sono fondamentalmente due: nel progettare, i decisori politici non tengono conto dei risultati della ricerca, ma solo o quasi della spendibilità delle loro decisioni in termini di consenso sindacale o elettorale, e nel realizzare non prevedono e non utilizzano nessuna forma sistematica di valutazione.
Quanto ai risultati della ricerca educativa, in giro per il mondo e nelle organizzazioni internazionali come l’Ocse, gli elementi che caratterizzano le scuole “di successo”, intendendo per successo la capacità di fornire agli alunni un’istruzione di qualità, che risponde sia alla domanda individuale che a quella sociale, sono stati da tempo individuati. Per citarne alcuni, l’autonomia delle scuole; un serio processo di formazione, selezione e carriera del corpo docente; la presenza di una governance forte e attenta sia agli aspetti didattici che agli aspetti organizzativi (talvolta presenti in un’unica persona, talvolta con una divisione dei due compiti ma mai in forma assembleare); la partecipazione delle famiglie e degli studenti; il coinvolgimento della comunità locale; l’alleggerimento del centro, che conserva solo alcune funzioni fondamentali come la progettazione e il controllo; infine, fondamentale, la presenza di uno stabile e rigoroso processo di valutazione.
Purtroppo, la valutazione in Italia ha più o meno la popolarità delle epidemie di influenza, tanto che quasi non esistono percorsi di formazione (il dottorato per la valutazione dei processi e delle istituzioni educative di Genova è stato attivato nel 2008), e gli italiani sono assenti nel panorama internazionale. Eppure, se non esiste un sistema di valutazione, e un sistema che comporti delle conseguenze, l’autonomia si trasforma facilmente in anarchia, e non è possibile capire se abbiamo di fronte delle “buone” o delle “cattive” scuole. Ma è di tante buone scuole, e non di una buona riforma, che è fatta la “buona scuola”. Se non si progetta una valutazione sul medio - lungo periodo, la riforma è una parola vuota: e troppo spesso un’innovazione è stata generalizzata o abbandonata senza che fosse stata fatta un’analisi seria delle sue conseguenze, dei miglioramenti rispetto agli obiettivi o quantomeno del rapporto costi/benefici.
Eppure sarebbe bastata una frase presente in una delle prime stesure della legge 53, poi abolita forse perché troppo innovativa: si prevedeva che periodicamente il ministro facesse una relazione al Parlamento “in vista delle eventuali modifiche”. Con cinque parole si cancellava l’idea che le riforme fossero immutabili nella loro minuziosità indipendentemente dagli esiti, e si introduceva il concetto di rolling reform, riforma autoregolante, capace di modificarsi in corso d’opera. Per questo serve un dialogo costante con la scuola e con gli esperti dei processi e delle istituzioni formative, non le consultazioni universali, in cui molti parlano, ma alla fine solo i sindacati vengono ascoltati. E allora, forse, se si prevedesse un processo rigoroso di valutazione delle innovazioni, e si reintroducesse quella frasetta (“in vista delle eventuali modifiche”), potrei anche dare un'apertura di credito al governo, lasciando alla scuola il tempo di sperimentare le innovazioni, che sarebbero reversibili, se inutili. Ma forse è sperare troppo.