domenica 31 maggio 2015

Il Sole 31.5.15
Dentro il «non voto». Il fenomeno nuovo per l’Italia di una quota di «critici» accanto al tradizionale partito degli «indifferenti»
Cresce l’astensionismo «d’opinione»
di Carlo Carboni


In questo lungo weekend, con coste soleggiate, l’astensione è più che mai in agguato alle elezioni regionali. È ormai il primo “partito” in Italia e in numerosi stati Ue. Nel nostro paese è diventata un focus per gli analisti, che l’avevano a lungo ignorata, ritenendola fisiologica alla modernità delle società di mercato, che assumono la democrazia come metodo di governo prima che mezzo di partecipazione. Oggi, gli italiani, più degli altri europei, nutrono sfiducia verso pezzi importanti del sistema. I partiti politici, ad esempio, raccolgono la fiducia di uno striminzito 9%, contro un 85% di antipatizzanti (Eurobaromenter, dicembre 2014).
Questa indignazione è diffusa in tutta l’Europa mediterranea (Francia inclusa), ma gli italiani, più degli altri, ritengono che il voto del singolo non conti e che sia inutile il suo impegno a fronte di una politica percepita come problema. La sfiducia è del resto l’humus della protesta e della defezione. L’astensione nelle elezioni politiche del febbraio 2013 fu un record e coinvolse 1 elettore su 4, ma, da allora, la sua crescita ha incenerito la soglia “psicologica” del 50% in occasione di elezioni europee (57%), comunali e regionali. L’Italia fa registrare, tra l’altro, un collasso della fiducia verso le istituzioni regionali e municipali (21%). È l’amara conseguenza di un brusco risveglio dai sogni federalisti degli anni 90, a fronte delle malefatte politiche che hanno affondato Sicilia, Lazio e Lombardia nel 2012, seguite poi da Calabria e Emilia Romagna e dalla brutta serie di scandali che hanno colpito le nostre grandi città.
Le élite politiche regionali, negli ultimi 15 anni, hanno sprecato una grande occasione interpretando a proprio uso e consumo la maggior autonomia e sovranità concesse dalle élite politiche nazionali. In questo quindicennio, ha finito per prevalere un “policentrismo caotico”, con culture amministrative marcatamente differenti tra regioni, uno scimmiottamento compiaciuto dei piccoli stati preunitari con a capo un “Governatore” con la sua corte di neo-notabilato.
L’astensione è un fenomeno interclassista che richiama la società liquida di Bauman, risucchiata dall'atarassia sociale. È diffusa in particolare tra i nostri giovani. È un pianeta disomogeneo e complesso. Oltre l’astensione frizionale (fisiologico-burocratica), resta molto diffuso l’astensionismo apatico e indifferente, immune “a priori” alla politica e alla partecipazione elettorale: un qualunquismo impolitico tradizionale per gli italiani, convinti che la massima di Machiavelli che “governare è far credere” equivalga a dover diffidare dei politici. A questo 20% di defezione elettorale tradizionale, va aggiunta quella critica, a volte rancorosa, di un’ampia area di elettorato non votante – l’astensione d’opinione - che si è formata più recentemente, al termine di una catena “antipolitica” di disillusioni causate dal doppio declino del voto d’appartenenza (da astinenza ideologica) e del voto di scambio (risorse pubbliche limitate).
L’astensionismo d’opinione è quindi figlio di una fluidificazione del voto rispetto a vecchie appartenenze e clientele; anziché fluttuare da uno schieramento all’altro o da un partito a un altro, in Italia, esso fluttua di frequente tra voto e astensione, tra voto di protesta e non voto, tra voice e exit. La diffusione dell’astensione d’opinione è, per molti versi, una novità assoluta dello scenario politico e, per velocità d’incremento negli ultimi 30 anni, in Italia è da record europeo. La sua forza può produrre un restringimento del mercato politico alla “minoranza che vota” e riguardare anche cittadini beninformati che, proprio in virtù di questo, voltano le spalle alla politica, come può accadere con candidati “impresentabili”.
Con questi presupposti favorevoli a un agguato dell’astensione le nostre istituzioni regionali rischiano un’ulteriore delegittimazione, se dovesse prevalere l’astensionismo d’opinione. Per ora, l’élite nazionale non se ne occupa né circolano strategie al riguardo. Nei Palazzi, si pensa che - voto o non voto - gli “scranni” in palio restano gli stessi e che la defezione elettorale “raddoppia” il valore del voto dei votanti. Il risultato è che l’astensione si traduce tacitamente in lealtà “passiva” verso il vincitore. Il recupero della platea dei votanti sembra quindi di là da venire e la defezione elettorale avere scarsa efficacia. Se l’astensionismo considera la politica di oggi il problema, non è vero però il contrario. Per chi vince e governa l’astensionismo non è un problema o non lo è ancora. Tuttavia, un “Governatore” eletto con il 15% degli elettori totali ci suscita non poche perplessità.