Il Sole 21.5.15
Minoranza in trincea, rischio Senato per il premier
A Palazzo Madama dove la soglia minima è di 161 la maggioranza può contare su 175 senatori salvo defezioni
di Emilia Patta
ROMA La riforma della scuola passa con la maggioranza assoluta a Montecitorio, non un voto in più non un voto in meno. «Trecentosedici sì è la maggioranza assoluta, per cui diciamo che è andato bene anche il voto sulla riforma della scuola», commenta la ministra per le Riforme e per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Che per svelenire il clima interno al Pd apre anche a possibili modifiche sui punti controversi nel prossimo passaggio in Senato: «Adesso c’è un altro passaggio significativo al Senato, quindi riaffronteremo alcuni punti che sappiamo essere ancora discussi», assicura Boschi. Eppure la tranquillità di facciata nasconde un vero e proprio allarme tra i renziani per il passaggio in Senato. Era infatti dal Jobs Act che una riforma targata Matteo Renzi non aveva un consenso parlamentare così basso alla Camera: 316 furono i sì nel novembre scorso sulla legge delega e 316 sono stati sul Ddl scuola. Due riforme con la R maiuscola che hanno oltre ai numeri altri due comuni denominatori: l’opposizione della minoranza bersanian-cuperliana del Pd e il successivo approdo a Palazzo Madama. Dove, com’è noto, la maggioranza si regge su una decina di voti di scarto e la sinistra del Pd è particolarmente compatta e agguerrita (in 24 firmarono il documento contro le riforme costituzionali). Per questo, al di là dei toni concilianti, tra i parlamentari renziani non si esclude la fiducia sulla “Buona Scuola” a Palazzo Madama. Anche se da Palazzo Chigi bocciano «voci» e «illazioni» e sottolineano che nessuno pensa alla fiducia sulla scuola.
Conti alla mano, nel Pd non hanno votato in segno di dissenso in 28 (40 nel complesso, ma molti erano in missione o assenti giustificati): un po’ meno dei 36 che non hanno votato la fiducia sull’Italicum (Enrico Letta, ad esempio, ieri ha votato) ma comunque un numero considerevole dentro il quale c’è un pezzo di Pd: gli ex segretari Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, l’ex capogruppo Roberto Speranza, l’ex sfidante alle primarie del Pd Gianni Cuperlo e personalità dell’era bersaniana come Alfredo D’Attorre, Nico Stumpo, Davide Zoggia e il sempre più in uscita Stefano Fassina. Insomma, nonostante i numeri si siano assottigliati rispetto al voto sull’Italicum, la riforma della scuola certifica la frattura tra i dem. «È la prova di un’opposizione a prescindere, un Vietnam strumentale e non di merito», sottolineano i renziani. Il riferimento è alla lettera dialogante con cui la sinistra (e tra le firme ce n’è anche qualcuna di chi ieri ha votato sì) riconosce i passi avanti fatti alla Camera con le modifiche introdotte in commissione e chiama i senatori ad impegnarsi per correttivi in 3 punti. Perché sulle due nuove modifiche chieste dalla minoranza per rivedere la chiamata diretta del preside (punto qualificante per Renzi della sua riforma) e sulle assunzioni per i precari di seconda fascia (qui è questione di bilancio pubblico) è chiaro che la porta del dialogo è chiusa. Ma l’eventuale resa dei conti con la sinistra del partito sulla scuola, e non solo, è a questo punto rimandata a dopo le regionali del 31 maggio. È evidente che l’esito del voto, con particolare occhio alla Liguria in bilico, influenzerà il comportamento di Renzi. Che comunque rivendica quanto fatto fin qui, dal Jobs Act all’Italicum alla responsabilità civile dei magistrati. Anche se non tutti sono d’accordo nel merito, ragiona il premier, «nessuno può negare che finalmente in Italia le cose si fanno, la politica ha ripreso slancio e il tempo delle chiacchiere è finito».
Intanto già da oggi l’incubo Senato comincerà a prendere forma, con l’arrivo del Ddl scuola in commissione Istruzione a Palazzo Madama: tre gli esponenti della minoranza dem (Martini, Mineo e Tocci), decisivi.