mercoledì 13 maggio 2015

Il Sole 13.5.15
La scuola non può appartenere al sindacato
di Attilio Oliva


La scuola non appartiene al sindacato. Stupisce che una verità così ovvia abbia suscitato tanto scandalo: o meglio, ci sarebbe di che stupirsi se non si conoscesse come sono andate le cose nella scuola italiana negli ultimi quarant’anni.
Non si tratta di un problema solo italiano: scriveva infatti Delors nel suo rapporto all’Unesco «si tratta di organizzazioni molto potenti, in cui è prevalso troppo lo spirito corporativo. È necessario, nell’interesse stesso della categoria, che si riapra un dialogo, illuminato di nuova luce, tra la società, i poteri pubblici e le organizzazioni sindacali...per rompere la sensazione di isolamento e frustrazione degli insegnanti stessi...per instaurare nella professione un clima di fiducia e un atteggiamento positivo nei confronti delle innovazioni educative».
Ma da noi il problema è stato aggravato da due ulteriori elementi. Il primo: a partire dagli anni Settanta, il sindacato della scuola è stato la principale agenzia di collocamento attiva sul mercato del lavoro. Centinaia di migliaia di laureati sono stati collocati, senza alcun filtro e non di rado senza neppure una reale propensione personale, nell’insegnamento. Complice la crisi dell’occupazione intellettuale, la scuola è diventata la principale valvola di sfogo per coloro che non trovavano un’occupazione diversa: e il sindacato si è fatto garante di un patto non scritto fra l’amministrazione scolastica e le legioni dei nuovi assunti. I termini del patto erano tanto semplici quanto esiziali per i destini della scuola: stipendi modesti in cambio di nessuna valutazione e sostanzialmente della rinuncia ad ingerirsi in quel che accadeva in classe.
E tuttavia, per quanto forte fosse la presa del sindacato, grazie al numero dei dipendenti da esso collocati e tutelati con strenua attenzione, essa non avrebbe potuto condizionare, come ha fatto, ogni decisione di rilievo in ambito scolastico se non si fosse incontrata con una circostanza strutturale esterna: la presenza di un’amministrazione debole, la cui maggior ambizione era quella di evitare il conflitto sociale, anche a costo di abdicare al proprio compito di indirizzo e controllo.
Non sorprende quindi che la battuta del ministro Boschi, di per sé ovvia, abbia suscitato reazioni polemiche così veementi. La scuola è diventata, di fatto, un ambito che il sindacato considera di propria pertinenza, sia pure sotto copertura della rappresentanza dei presunti interessi dei lavoratori. Ma sarebbe giusto dire che le cose non stanno così.
In primo luogo, i lavoratori in questione non sono affatto unanimi nel considerare positiva l’attuale situazione di appiattimento professionale in nome dell’uguaglianza. Molti di loro sarebbero pronti ad impegnarsi di più, in cambio di una maggiore visibilità e di un riconoscimento, non solo economico, delle proprie qualità professionali. In aggiunta, la scuola non è chiamata ad essere luogo di soddisfacimento degli interessi di chi ci lavora, ma di chi ci studia e dovrebbe trovarvi le condizioni migliori per prepararsi al domani. Il parere degli utenti, negli ultimi quaranta anni, non lo ha chiesto nessuno. Lo ha fatto per la prima volta – sia pure con modalità a volte ispirate ad una comunicazione sopra le righe – l’attuale governo e soprattutto il presidente del Consiglio.
Questa rottura ha il merito di ricollocare un dibattito che si è trascinato troppo a lungo in un terreno sbagliato: di chi è la scuola e chi ha titolo a dettarne la linea. Non vi è dubbio, per chiunque sia in buona fede e abbia a cuore l’interesse dei giovani, che essa debba essere al servizio della società civile e che quindi debba assumere le linee guida da chi ha la responsabilità di guidare il Paese.
Il che solleva anche un’altra questione: quella della necessità di ripristinare, almeno in parte, uno stato giuridico della professione docente, che la sottragga all’ipoteca sindacale. Diritti e doveri, confini della libertà, codice deontologico: sono tutte questioni che – incidendo sull’interesse collettivo – non possono essere affidate alla regolazione contrattuale fra le parti. Il contratto deve circoscrivere il proprio ambito alla retribuzione e alle tutele fondamentali: ferie, malattia, maternità e poco altro. Tutto il resto deve tornare ad essere regolato per legge, a garanzia della libertà di tutti.