Corriere 28.5.15
Ridiamo alle Regioni lo spirito delle origini
di Valerio Onida
Presidente emerito della Corte costituzionale
Caro direttore, «L’innovazione più importante introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese»: così si esprimeva Meuccio Ruini, presidente della commissione incaricata di redigere il testo di Costituzione da sottoporre all’Assemblea costituente, nella sua relazione al progetto, illustrando il titolo della Carta dedicato a «Regioni, Province e Comuni». Sabato scorso, commentando le imminenti elezioni regionali, Antonio Polito ha scritto sul Corriere che «di Regioni ormai non parla più nessuno» e che «se oggi s’avanza qualcosa è piuttosto un nuovo centralismo», concludendo con una sintesi fulminante: «Il potere è a Roma, in periferia sono rimaste solo le addizionali Irpef».
È davvero così? È questa ormai la nostra prospettiva, insieme magari a quella della ulteriore crescita di un potere sovranazionale, l’Unione Europea?
C’è di che dubitarne. E forse si deve adottare una visuale un poco più a lungo termine. Intanto, si palesa un paradosso. Mentre si sostiene che le Regioni non interessano più a nessuno, si discute (anche in campagna elettorale) di un referendum in Veneto sull’indipendenza, magari guardando ad esempi oltre frontiera, come la Scozia o la Catalogna. Come dire: se il potere è (solo) a Roma, non c’è che rendersene indipendenti ( los von Rom , lontano da Roma, secondo un vecchio motto degli ultras altoatesini di lingua tedesca).
È certo che nell’immediato la classe politica nazionale, nella sua grande maggioranza, oggi sembra non credere nelle Regioni. Altrimenti non si capirebbe come mai governo e maggioranza parlamentare insistano su un progetto di riforma costituzionale che — per questa parte — invece di limitarsi a correggere qualche errore evidente della riforma «federalista»(?) del 2001, si sia spinto a prefigurare un nettissimo riaccentramento di poteri legislativi nello Stato: e non certo perché lo Stato centrale sia oggi troppo debole, data la interpretazione sempre più estensiva data alle vigenti norme costituzionali che ne definiscono i poteri nei rapporti con le Regioni. Anche un movimento politico come la Lega, nato sull’onda di rivendicazioni autonomistiche se non secessioniste, oggi sembra più che altro interessato a diffondere a livello nazionale il suo verbo da destra estremistica e anti immigrati.
Segni di miopia di una classe dirigente schiacciata sull’oggi immediato e sull’inseguimento degli umori affioranti nell’opinione pubblica. Possiamo guardare le cose un poco più in grande?
Le Regioni sono state volute e attuate (tardivamente e lentamente, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso) per cercare di costruire uno Stato nuovo, più moderno e più vicino ai cittadini di quello della tradizione centralistica e burocratica: per avere migliori servizi alle persone, per governare in modo intelligente il territorio, per sollecitare e accom-pagnare lo sviluppo economico nel suo versante locale. Negli anni Settanta, per fare un solo esempio, fu la Regione Lombardia a varare la prima legge in Italia sull’inquinamento idrico, che ha preceduto quella statale del 1976.
La storia di ciascuna delle nostre Regioni ha certo conosciuto ritardi, insufficienze, anche pagine ingloriose. Ma non possiamo ridurla tutta all’uso disinvolto da parte di alcuni consiglieri regionali dei finanziamenti dati ai gruppi consiliari.
È ancora possibile — ed è doveroso — riprendere il disegno autonomistico (che la Costituzione colloca fra i suoi principi fondamentali), razionalizzando i poteri e le procedure, costruendo amministrazioni più moderne ed efficienti, dando vita finalmente ad un sistema finanziario di vera e responsabile autonomia, in cui ciascuna Regione disponga di risorse autonome e di poteri fiscali di cui risponde ai propri cittadini, e in cui i meccanismi di solidarietà interregionale — indispensabili perché l’autonomia non si converta in egoismi collettivi, mantenendo e aggravando gli squilibri territoriali in atto — siano trasparenti e accompagnati da precise forme di responsabilità, anche attraverso l’impiego di poteri sostitutivi e di «commissariamenti», dove è necessario.
Se l’imminente voto regionale fosse visto in questa chiave, anche la triste prospettiva di una crescente diserzione degli elettori dalle urne potrebbe essere contrastata e contenuta.