lunedì 25 maggio 2015

Corriere 25.5.15
La morte di John Nash
Lo scienziato diventato icona pop svelò l’equilibrio (che non aveva)
di Paolo Giordano


N egli anni del suo dottorato a Princeton, John Nash inventò un gioco da tavola. Il gioco è oggi noto come Hex ed era stato ideato precedentemente in Danimarca, ma all’epoca Nash non lo sapeva. Due giocatori muniti di pedine di colore diverso si fronteggiano su una plancia a forma di rombo divisa in esagoni. Appoggiano una pedina a testa sulla plancia. Vince il primo che riesce a creare un percorso continuo del proprio colore da un lato della plancia a quello opposto. Lo scopo, insomma, è quello di fabbricarsi un cammino, un percorso di uscita da una parte all’altra del rombo. In Hex ogni giocatore agisce esclusivamente a proprio vantaggio e in modo da ostacolare l’avversario. Il gioco si fonda su un’idea pura di conflitto, quella che sorge spontanea in noi ogni volta che si pensa a una gara. Nash dimostrò che la fase di stallo non era possibile e che uno dei due contendenti, infine, avrebbe prevalso.
È sempre difficile esprimere il senso e la portata di una teoria matematica a parole. Nash stesso era refrattario a spiegare le proprie scoperte. Ma, se dovessi dire quale fu il suo balzo d’immaginazione quando scrisse gli articoli che molto tempo dopo gli sarebbero valsi il Nobel per l’Economia, direi che si trattò di prendere per la prima volta in considerazione un principio di «razionalità» nei giochi competitivi. Egli si accorse — matematicamente parlando — che di rado nelle competizioni ciò che risulta più conveniente è aggredire l’altro e mirare ciecamente al proprio successo. Se i giocatori sono dotati di sufficiente raziocinio, essi si accorgeranno che esiste invece una strategia più favorevole, che prende in considerazione anche le strategie degli altri. Il principio di razionalità sta proprio in questo: nell’accordare la propria migliore strategia alle migliori strategie altrui. Una situazione in cui tutti si comportano in tale senso è chiamata un «equilibrio di Nash».
A sentirlo, sembra più astruso e irrealizzabile di quanto non sia nella realtà, forse perché siamo portati ad avere una sfiducia istintiva nell’animo umano. Ma per Nash la bontà dell’individuo non c’entra niente. Un esempio celebre di applicabilità della sua teoria è il gioco mortale di Gioventù bruciata, nel quale James Dean gareggia in automobile contro Corey Allen. Entrambi devono accelerare verso un precipizio, il primo che si getterà fuori dalla macchina sarà bollato come the chicken, «il pollo». Nel film il gioco finisce nel peggiore dei modi a causa di un imprevisto (una manica del giubbotto impigliata nella portiera). In una situazione priva d’intoppi, tuttavia, è evidente che la convenienza, tanto per James Dean quanto per Allen, non sarebbe quella di vincere a tutti i costi, bensì quella di vincere salvandosi la pelle. Ognuno saprebbe altrettanto bene come ciò sia valido anche per l’altro. Perciò, se nei due ragazzi non bruciasse la pazzia della gioventù, essi raggiungerebbero da soli un equilibrio di Nash, e uno dei due si deciderebbe infine a rallentare.
Con il tempo si è scoperto che i «giochi» ai quali la teoria di Nash è applicabile sono innumerevoli e molto seri. L’economia, innanzitutto. Ma anche la politica, la guerra e, se uno ci riflette bene, certe relazioni personali.
John Nash è morto ieri in una corsa in automobile. Nulla di eroico, nessuna gara verso il precipizio, era semplicemente a bordo di un taxi insieme alla moglie Alicia. Più di ogni altro scienziato contemporaneo era diventato, grazie a un film, anche un’icona popolare, l’ultima incarnazione dell’incontro poetico fra genio e follia. Ha vissuto momenti lunghi di margine e di sofferenza, e altrettanti di riscatto. Tutti quegli sconvolgimenti erano nascosti dietro un viso affilato e impassibile, dentro un modo di parlare acidulo e un po’ incerto. Negli anni più bui della malattia psichica sentiva delle voci. Non vedeva persone inesistenti, come viene mostrato nel film sulla sua vita, ma le sentiva discorrere. Mi affascina pensare, anche se è probabile che non abbia alcun senso, che il principio di razionalità ch’egli introdusse nella teoria dei giochi fosse legato alla sua necessità di conciliare quelle voci, di trovare una quiete momentanea nel baccano. E sono certo che scoprire l’esistenza di un equilibrio non fosse possibile altrimenti: era concesso soltanto dall’interno di una vita che non conosceva equilibrio alcuno.