Corriere 25.5.15
Una gesuitica conversione e la sorte del regime cubano
risponde Sergio Romano
Ministri e presidenti sgomitano nell’anticamera di Raúl Castro, dopo la «normalizzazione» dei rapporti cubano-americani annunciata dal presidente Obama il 17 dicembre scorso, in cerca di un posto al sole nel mercato cubano che si profila all’orizzonte. Bene. Il dialogo è sempre preferibile al confronto. A condizione, tuttavia, che si tratti di un vero dialogo in cui ciascuna della parti ceda e guadagni qualcosa. Ora l’impressione è che mentre Raúl Castro abbia guadagnato tutto (in termini di legittimità internazionale) senza cedere nulla (sul piano della transizione democratica), Obama si ritrovi in mano solo una cambiale a «babbo morto», e cioè la vaga speranza che le aperture economiche determineranno prima o poi anche svolte politiche. Ma non è affatto scontato. Raúl Castro ha sempre sostenuto di voler «correggere gli errori e gli eccessi del sistema», per migliorarlo non per cambiarlo, salvando in qualche modo l’economia cubana sull’orlo del fallimento, Usa e Ue sono consapevoli che, senza adeguate contropartite, stanno rafforzando e perpetuando un regime dittatoriale, più forte che mai dopo l’avvenuta legittimazione internazionale e vaticana?
Domenico Vecchioni
Caro Vecchioni,
Anche a me è parso che la «conversione» di Raúl sia stata frettolosa, sfacciatamente cortigiana e, come si sarebbe detto in altri tempi, «gesuitica». Ma capisco il calcolo di Obama. Gli Stati Uniti si sono lungamente serviti dell’embargo per provocare un cambiamento di regime all’Avana e dare una soddisfazione agli elettori di origine cubana della Florida. Questo disegno politico è fallito. Il regime è sopravvissuto al crollo dell’Unione Sovietica, ha superato la crisi provocata dalla malattia di Fidel Castro e dispone ancora, nonostante la fine del comunismo, di un rilevante capitale politico. Per molti Paesi dell’America Latina, Cuba è il Davide
che ha sfidato Golia, la prova che la fierezza di un piccolo Stato può tenere testa alla superpotenza nord-americana. Ne abbiamo avuto la prova quando abbiamo constatato che molti Stati del continente, più o meno capitalisti, non potevano esimersi dall’obbligo di rendere omaggio all’isola di Castro. Anche agli occhi dei governi più conservatori Cuba ha smesso di rappresentare un rischio di contagio, ma continua a lusingare i sentimenti anti-yankee del continente. Il Papa non avrebbe avuto torto se davvero avesse detto al presidente Obama che la soluzione del problema cubano avrebbe giovato alle relazioni degli Stati Uniti con i Paesi dell’America Latina.
Quanto ai cubani della Florida, caro Vecchioni, ho l’impressione che gli esuli siano invecchiati e i figli si siano in buona parte stancati di aspettare la fine del regime. Vogliono essere liberi di tornare nell’isola per le loro vacanze, di riallacciare i rapporti con le famiglie rimaste in patria e di aiutarle finanziariamente. Naturalmente Raúl e gli apparati del sistema politico cubano non intendono rinunciare al potere. Il quesito, a questo punto, è: che cosa accadrà del regime? Si spegnerà come una candela? Vi saranno rigurgiti rivoluzionari e movimenti popolari? Non è facile fare previsioni, ma gli americani, quale che sia lo scenario, avranno più carte nelle loro mani di quante ne avrebbero se Obama non avesse ristabilito i rapporti con l’isola.