martedì 12 maggio 2015

Corriere 12.5.15
Anna Maria Ortese scrittrice dimenticata
di Paolo Di Stefano


Non è obbligatoria la memoria. Non è un obbligo ricordare, ammirare, onorare i morti, ma che desolazione andare per Rapallo — non New York e neanche Milano — a cercare la casa di Anna Maria Ortese senza trovare nessuno che sappia reagire con un cenno di intesa. Non solo che ti dica dove ha abitato, per oltre vent’anni, la scrittrice di racconti e romanzi famosi come Il mare non bagna Napoli o Il cardillo addolorato , una delle grandi voci del Novecento. Nessuno che mostri di conoscerne il nome. «Ortese? Mai sentito», risponde un anziano signore fermo su un marciapiede in attesa dei corridori.
   Sarà che l’effervescenza del Giro d’Italia (la terza tappa ieri è partita da qui) ubriaca un po’ il cervello, ma nessuno, proprio nessuno che riesca a trasmettere un segno che non sia di sperdimento abissale. Neanche la vigile, che pure dovrebbe sapere che il consiglio comunale, un paio d’anni fa, ha deciso di intitolare alla scrittrice i giardini davanti al teatro delle Clarisse. «No, qui a Rapallo non esiste nessun Giardino Ortese…», cade dalle nuvole. Un altro anziano allarga le braccia: «Non saprei, se avesse qualche attività commerciale, forse la conoscerei…».
   Va bene, ti dici tra incredulo e rassegnato all’oblio di una scrittrice che ami molto, va bene, entriamo in una libreria. È la Gulliver di corso Mameli, la stessa strada in cui la Ortese ha vissuto, al numero 170, con la sorella Maria dal 1975 alla morte, avvenuta nel 1998. È vero che ha vissuto quasi rifugiata e impermeabile al mondo; è vero che odiava sentire il motore delle auto e che dormiva con i pollici ficcati nelle orecchie. È vero che non deve aver avuto molti rapporti con il vicinato, ma qualcuno avrà pur informato le librerie cittadine che da queste parti ha vissuto per oltre due decenni una delle scrittrici più importanti del secolo scorso, i cui libri sono stati ristampati più volte da Adelphi. Niente da fare. La libraia sente il suo nome, si gira e sibila: «Chiiiii?». «Or-te-se!», scandisci. «Mi scusi ma non ne so niente», esclama forse prendendomi per un pazzo, per un fanatico o per un mitomane.    La casa è una palazzina insignificante di cinque piani, anni Sessanta. Bisogna aprire un cancellino verde per accedere ai citofoni: il cognome «Ortese» è aggiunto a mano, con un inchiostro blu quasi invisibile, fuori dal pulsante numero 17. Alla ragazza del discount a pianterreno meglio non chiedere. Anzi, meglio chiedere: «Ortese? E che cosa sarebbe?».