domenica 5 aprile 2015

Repubblica 5.4.15
Carlo Carena
“È in un piccolo mondo classico che ho cercato la mia felicità”
«Il mito è uno dei grandi regni della fantasia. Creazione geniale del mondo greco-romano. Non è un regno di mostri del sonno e della ragione come in Egitto o tra i Germani, bensì l’ideale dell’uomo».
colloquio con Antonio Gnoli


Platone
Paragonò l’esistenza a una partita a dadi ma non è un azzardo: dopo un lancio vantaggioso occorre saper sfruttare con sapienza l’esito

NEL più romantico dei laghi, il lago d’Orta, si affaccia il più romantico degli studiosi: Carlo Carena. L’uomo che minimizza se stesso. Che sussurra al mondo antico e ai classici, con la discrezione di un signore abituato al silenzio e alla moderazione. Un romanticismo tenue e senza protagonismo: «Le nostre esistenze sono del tutto trascurabili. Qualche eccezione certo. Ma per la gran parte che senso ha agitarsi, ponendosi al centro di storie che, se va bene, ci vedono marginali?», dice con una punta di leggero anacronismo. Siamo irrilevanti. Ed è per questo che Carlo Carena – ormai prossimo ai novant’anni (li compirà a novembre) – si è per tutta la vita mimetizzato nei libri e in quegli autori che lo hanno educato, migliorato, in una parola guidato verso una moderazione che per gli antichi a volte ha preso la forma della felicità.
Caro professore, ho tra le mani La vita felice di Plutarco che lei ha curato per Einaudi...
«Le piace Plutarco?».
In fondo è stato il primo a dirci “stai sereno”. Dedica perfino un capitolo alle norme per mantenersi in buona salute.
«Era anche un medico».
Non si cura il corpo senza curare l’anima. Come avrebbe scoperto secoli dopo la psicoanalisi.
«Non ho idee precise in proposito, anche perché confesso di saperne poco o nulla».
È sorprendente la sua onestà intellettuale. Disarmante.
«La chiami modestia o temperanza».
Parole insolite. Davvero, come credeva Plutarco, anche noi possiamo aspirare alla felicità?
«Non so a cosa oggi si possa aspirare visto come si è trasformato il nostro mondo. Ma certamente in quello antico la felicità era un tema molto sentito. Nel lessico greco poteva rivelarsi tanto nella benevolenza di un dio quanto nel caso o nella fortuna».
Platone paragonò la vita a una partita di dadi.
«È sorprendente questa immagine che ha il sapore dell’azzardo. Ma intendeva dirci che dopo un lancio vantaggioso occorre sfruttare con sapienza l’esito. E Plutarco, qualche secolo dopo, si mise sulla scia di quella riflessione. Pochi oggi conoscono il pensiero di questo tardo platonico che non fu un filosofo originale ma esperto di vita».
L’originalità non era poi un valore così apprezzato.
«Poteva anzi dimostrarsi un’insidia. Plutarco fu un grande affabulatore. Capace di proporre soluzioni ai problemi che assillano l’uomo. Per essere felici, ci dice, occorre raggiungere la tranquillità d’animo, che non si ottiene con lo smodato appagamento dei sensi, come volevano gli epicurei, ma neppure col rigore arcigno e triste degli stoici. Amava la vita riservata e detestava le vanità degli ambiziosi».
Si riconosce in quei precetti?
«Erano fondamentali venti secoli fa e per me lo sono ancora oggi. Un grazie va certamente ai miei maestri».
Chi sono stati?
«Ho studiato a Torino in una facoltà di lettere allora strettamente filologica. Maestro di letteratura latina e di filologia era Augusto Rostagni, grande studioso di Virgilio e Orazio. Il greco era affidato ad Angelo Taccone. E poi c’era Vincenzo Ciaffi, assistente di Rostagni. Un ingegno capace di farci amare autori come Petronio e Apuleio. Ricordo che ci faceva tradurre in latino Il Principe di Machiavelli. Devo ancora conservare da qualche parte le dispense di quei lontani esercizi».
Racconta di un mondo sparito.
«L’università era davvero qualcosa di diverso. Devo aggiungere, tra le figure che hanno contato nella mia formazione, monsignor Michele Pellegrino, il futuro cardinale e arcivescovo di Torino. Mi indirizzò verso sant’Agostino».
Nella sua formazione c’è stato anche Clemente Rebora, uno dei quattro o cinque grandissimi poeti italiani del Novecento.
«Lo ebbi come padre spirituale e insegnante di religione negli anni della guerra al collegio rosminiano di Domodossola. Era entrato da poco, dopo la conversione del 1928, in quell’ordine religioso. Del suo passato non parlava quasi nessuno, tanto meno lui».
Che ricordo ne ha?
«Viveva in mezzo a noi da mistico, camminando in punta di piedi col volto aquilino sempre arrossato e un’espressione fanciullesca. Non era molto popolare tra gli allievi. Forse perché non giocava a pallone o perché le sue messe in latino erano lunghissime. Teneva in tasca una scorta di minuscoli foglietti su cui di tanto in tanto scriveva qualche parola. Un deposito preziosissimo di cui, più tardi, è stato pubblicato qualche estratto che ci dà la misura della straordinaria profondità del suo animo».
La sua inattualità affascina.
«Cosa ci trova?».
Va controcorrente. Il piacere e la felicità degli antichi non sono i medesimi che siamo disposti a condividere.
«Penso che l’aggettivo “naturale” nel piacere degli antichi era fondamentale. Non affrontavano grandi viaggi, non avevano profonde conoscenze del mondo, né comodità, né diffusi rimedi alle malattie. Potevano cercare la felicità soprattutto nella quiete interiore. Oggi si è passati dall’esortazione della parola a quella dell’immagine».
Con quali conseguenze?
«Si sono create figure spettacolari ma culturalmente inconsistenti. Viviamo di impressioni epidermiche. La prevalenza dell’immagine mi spaventa. Ci rende personaggi distorti, irreali, impalpabili. E soprattutto senza verifica. Le mie sono constatazioni di un uomo che vive appartato. Questo destino forse avrà in futu ro i suoi valori, ma oggi si trasmette nella piattezza del presente». Non crede al progresso?
«Al contrario, proprio perché ci credo vorrei che diventasse la nostra sfida morale. Quando l’immoralista Talleyrand diceva che chi non ha conosciuto gli anni che precedettero la Rivoluzione francese non poteva sapere come può essere felice la vita, alludeva al desiderio dei signori non certo alle aspirazioni dei contadini e dei servi».
Il suo cinismo si accompagnò a un immenso talento.
«Fu una canaglia come poche ma di genio».
Reagì al progresso e si adeguò ogni volta schierandosi dalla parte del vincitore.
«Ciò che in lui era ancora un’arte oggi è diventato miserabile opportunismo».
Sono le facce meno nobili della nostra epoca contemporanea.
«Si vive sempre più sotto il segno della mobilità. Fino a cent’anni fa la vita non era diversa da un secolo o cinque secoli prima. Samuel Butler, ai primi del Novecento, venne in Italia con gli stessi mezzi, nello stesso tempo e trovando gli stessi villaggi e gli stessi uomini che, su quella medesima strada, aveva incontrato Edward Gibbon a metà del Settecento. Misuravano il mondo degli uomini alla stessa maniera, perché tutto era così. Sarei tentato di farne l’elegia. Ma davanti ai tuguri degli abitanti del San Gottardo e alle pestilenze che facevano gemere le madri sui bordi delle strade, sono indotto a qualche cautela».
Lei dice: bene il progresso ma non diventi un’ideologia.
«Suggerirei di leggere Montaigne. È il correttivo ad ogni infatuazione, il rifiuto degli estremi, la sostituzione dell’intelligenza alla sentimentalità. Perfino l’amore lo intimorisce. Lettore anch’egli devoto degli scrittori classici – di Livio e di Tacito, come dello stesso Agostino – è un maestro di come se ne deve fare un buon uso».
Anche lei è un maestro del buon uso.
«Non spetta a me dirlo. Devo ai classici la fortuna di aver lavorato per vent’anni nella redazione e nella direzione della casa editrice Einaudi. Fu per me davvero un’altra scuola e un’altra officina veder nascere collane letterarie come i Millenni e la Nue, occuparmi di saggi e di poesia e, soprattutto, delle sezioni antiche. Giulio Einaudi non poneva confini. Era curioso e interessato di sentire l’opinione o l’impressione di tutti su tutto. Vi si aggiravano figure coltissime come Franco Lucentini o Massimo Mila, parlo di due persone con cui condivisi l’amicizia».
C’è una foto che la ritrae in un gruppo einaudiano insieme a Italo Calvino.
«La ricordo benissimo. Eravamo giovani. C’erano anche Nico Orengo e Guido Davico Bonino. Eravamo a Rhemes. Tutte le estati, nel mese di luglio, Einaudi ci portava in questo piccolo villaggio della Valle d’Aosta. Una specie di conclave che riuniva per una settimana redattori e collaboratori. Si discuteva di tutto. Liberamente. Realizzammo in quegli anni opere colossali come la traduzione della Storia naturale di Plinio il Vecchio, cinquemila pagine; e dall’altro capo l’ Epistolario di Virginia Woolf, quasi tremila pagine. Roberto Cerati – che fu una delle anime della casa editrice - diceva compiaciuto che quello era il fieno messo in cascina. Furono anni fertili».
Le mancano?
«Non più di tanto. Anche perché l’eredità fu così vasta e lo stampo così vigoroso che quell’aria mitica è rimasta e spira ancora nei corridoi bianchi della casa editrice ».
Che rapporto ha con il mito?
«Il mito è uno dei grandi regni della fantasia. Creazione geniale del mondo greco-romano. Non è un regno di mostri del sonno e della ragione come in Egitto o tra i Germani, bensì l’ideale dell’uomo».
Gli dèi, come gli umani, spesso non danno il meglio di loro.
«È vero. Giunone soffre indispettita al vedere Enea salvo con le reliquie di Troia; e Giove gode della bellezza di Venere sua figlia. Per noi i miti sono un labirinto inesauribile di incontri. E li ritroveremo nelle opere letterarie e artistiche di tutta l’Europa e perfino nel nostro immaginario quotidiano».
A cosa pensa?
«Mi viene in mente ad esempio il futurismo. Nella sua pulizia iconoclasta risale e ricorre a forme mitiche. Quando Marinetti proclama la dipartita da ogni mitologia e da ogni ideale mistico e auspica la loro demolizione, annuncia l’avvento della macchina come il nuovo “Centauro a motore”».
Però oggi la sostanza del mito sembra molto diversa da quella antica.
«Ciò che distingue i miti di oggi è l’essere creati e depositati nelle immagini, in sé e per sé. Non liberano più la realtà, non la fecondano. Ne sono prigionieri».
Nella sua lunga vita di studioso sono pochi i libri che ha scritto e molti quelli che ha curato e tradotto. Che scelta è stata?
«Si imbocca una strada e se si è soddisfatti perché cambiare? Si può dire molto attraverso i giganti sulle cui spalle ho varcato mari e monti. In fondo, ci si esprime anche attraverso la loro scelta ».
Come definirebbe la traduzione? C’è un aspetto etico oltre che estetico?
«Penso proprio di sì. Diceva Madame de La Fayette che una traduzione è un messaggio di una duchessa riferito al destinatario dal suo lacchè. E non c’è altro modo per far giungere a tutti ciò che di grande e importante fu detto ed è detto. Quanto a lui, al lacchè, pensando e ripetendo nella sua mente il messaggio, viene a conoscerlo intimamente, scopre i segreti della sua costruzione, intimi a quelle parole e alla natura di chi lo invia ».
Si riscatta dall’essere un puro esecutore.
«Raggiunge il midollo avvolto dalla corteccia, per usare la metafora del principe dei traduttori, San Gerolamo. E così la traduzione diviene un’esegesi stessa del testo. Il pericolo sta semmai nella tentazione di voler prevaricare l’autore, stravolgerlo nella pretesa di renderlo più interessante ».
La nostra cultura è diventata veloce e superficiale.
«Va a scapito del nostro passato. Un tempo essa si reggeva su pochi pilastri. Oggi i pilastri sono più numerosi ma cosa sorreggono? Niccolò Tommaseo – uno scrittore del primo Ottocento - non sapeva chi era Shakespeare. Oggi noi tutti conosciamo le sue grandi imprese letterarie. Ma a cosa ci serve se non abbiamo più un metodo per organizzare il nostro immenso patrimonio di conoscenze? Forse, come annotava La Rochefoucauld, non abbiamo più la forza per seguire del tutto la nostra ragione».
E qui il mondo antico, che lei ha così autorevolmente indagato, si ricongiunge con quello moderno.
«Non autorevolmente, bensì perdutamente. Ed è vero che c’è una linea che congiunge età così diverse e lontane. Per tre anni ho lavorato alla nuova traduzione e cura delle Massime di La Rochefoucald (uscirà credo prima dell’estate nella collana i Millenni dell’Einaudi) ».
E allora concludiamo con un’altra massima di questo grande moralista.
«“I difetti dell’intelletto aumentano invecchiando, come quelli del viso”. Penso naturalmente alla mia età».
Le pesano i suoi novant’anni?
«No, per nulla. Ma a volte mi insospettiscono. “I vecchi”, è sempre La Rochefoucald a ricordarcelo, “amano dare buoni precetti per consolarsi di non essere più in grado di dare cattivi esempi”».