venerdì 3 aprile 2015

Repubblica 3.4.15
James Stavridis
“Un passo decisivo per fermare la crisi in Medio Oriente”
intervista di Arturo Zampaglione


NEW YORK «Ci vorrà ancora molto lavoro per arrivare al vero maxi-accordo con l’Iran», avverte James Stavridis. «Ma il tempo gioca a favore dell’Occidente», aggiunge l’ammiraglio americano. «E anche una dichiarazionequadro come quella di Losanna è importante per l’obiettivo numero uno: cioè evitare che Teheran disponga di armi atomiche e inneschi una corsa alla bomba da parte dei sauditi e magari anche di egiziani e turchi».
Comandante supremo della Nato fino a due anni fa e ora rettore della Fletcher school, la più antica scuola americana di diplomazia, che fa parte della Tufts University di Boston, Stavridis sembra soddisfatto, nonostante molti esperti si aspettassero di più dal prolungamento dei negoziati e nonostante le proteste di Israele e dei repubblicani.
James Stavridis, perché attribuisce tanta importanza alle tentazioni nucleari saudite?
«La realtà è che, al di là delle apparenze e delle decapitazioni, il potere imperiale dell’Iran rappresenta una sfida strategica molto più impegnativa per gli Stati Uniti che non l’Is o Al Qaeda. Teheran già controlla di fatto cinque capitali del Medio Oriente e punta a estendere la sfera d’influenza sciita sul mondo sunnita. Di qui i timori dei sauditi, i quali cercherebbero di dotarsi di un arsenale atomico, con l’aiuto dei pachistani, da contrapporre alle eventuali bombe iraniane. L’Egitto e la Turchia potrebbero muoversi nella stessa direzione, rendendo l’intero Medio Oriente molto più pericoloso, instabile e ingovernabile di quanto non lo sia già».
Che cosa succederà adesso a livello politico? Come reagirà il Congresso americano?
«Nel sistema americano è il presidente a decidere su accordi come quello con l’Iran, perché non si configurano come un trattato internazionale. Ma il Congresso ha ovviamente voce in capitolo e può mettere dei bastoni tra le ruote, ad esempio varando nuove sanzioni anti-Teheran, nonostante le minacce della Casa Bianca, e negando i finanziamenti per le ispezioni negli impianti iraniani. Ma non essendoci ancora un documento tecnico vero e proprio, la maggioranza repubblicana dovrà aspettare prima di lanciare una autentica offensiva parlamentare».
Come spiega l’opposizione così violenta della destra: è solo per ragioni di politica interna?
«Intendiamoci: capisco le diffidenze di molti parlamentari, perché in sostanza gli iraniani ci chiedono di comprare una auto senza neanche dare un’occhiata al motore; ma qualsiasi progresso, anche limitato, è meglio di una rottura e soprattutto di una involuzione militare. E la mia speranza è che anche Benjamin Netanyahu, rafforzatosi con la recente vittoria elettorale, possa permettersi di avere un atteggiamento più costruttivo».
I negoziati di Losanna hanno confermato un notevole sforzo anche da parte iraniana: come lo spiega?
«È il risultato delle sanzioni economiche, che hanno impoverito il popolo e indebolito il regime. Voglio sottolinearlo con forza perché, di fronte a uno scetticismo sullo strumento delle sanzioni, ad esempio nel caso della Russia per l’invasione dell’Ucraina, è una prova che invece funzionano: ma bisogna aspettare del tempo e non essere impazienti».
Ovviamente non è ancora detta l’ultima parola: il maxiaccordo con l’Iran di fine giugno potrebbe ancora saltare se i tecnici non si mettessero d’accordo o se una della parti facesse marcia indietro. Che succederebbe in un caso del genere?
«La risposta americana si muoverebbe in tre direzione: primo, rassicurare gli alleati, soprattutto gli israeliani e le capitali sunnite; secondo, cercare di neutralizzare il programma nucleare iraniano con operazioni militari nonconvenzionali, cioè con cyber-attacchi, droni o squadre speciali; terzo mantenere e rafforzare le sanzioni. Ma ora la speranza è che tutti questi scenari restino sulla carta e che si apra una nuova fase nelle relazioni con Teheran».