Repubblica 2.4.15
Le stragi “spettacolari” dei suicidi-omicidi in cerca di eroismo
Nel
nuovo saggio “Heroes” Franco “Bifo” Berardi analizza le azioni
clamorose di uomini soli dal massacro di Lubitz alla carneficina di
Breivik
di Gabriele Romagnoli
ANDREAS Lubitz, il
co-pilota suicida/omicida del volo Germanwings, non ha viaggiato da
solo verso la nera pagina di storia che lo ricorderà. I suoi compagni di
viaggio non sono i 149 tra passeggeri e membri dell’equipaggio, ma
Anders Breivik, il massacratore dei giovani socialdemocratici in
campeggio sull’isola norvegese di Utoya; James Holmes, il joker che aprì
il fuoco in un cinema di Aurora durante una proiezione di Batman; i
kamikaze dell’11 settembre, i 400 medici che ogni anno si tolgono la
vita negli Stati Uniti, i 35 impiegati di France Telecom che non hanno
retto alla modifica dei ritmi di lavoro, i banchieri di Wall Street che
hanno reagito alla crisi buttandosi dal tetto del grattacielo di cui il
giorno prima si sentivano padroni, le migliaia di uomini e donne che a
un ritmo crescente si ammazzano: +60% negli ultimi 45 anni è la stima
dell’organizzazione mondiale della sanità. Esiste un filo comune che
lega questi eventi. Esistono un perché e un come condivisi. Esiste
soprattutto, e questo è il segnale di allarme rimasto acceso sul
cruscotto di Lubitz, un legame tra suicidio e massacro. Sta diventando
indissolubile. In questo stesso momento, mentre noi diamo del pazzo al
co-pilota tedesco, qualcuno si prepara a emularlo, ad andarsene, ma in
una scia di fuoco. Il punto è che mentre noi milioni non facciamo storia
né vittime, quell’isolato che si prepara a Taiwan, Cincinnati o Milano,
inesorabilmente sì.
Il perché e il come, allora. A cercare di
individuarli è un libro, curioso e interessante fin dal suo percorso
editoriale. Lo ha scritto Franco Berardi, detto Bifo, sociologo, anima
del movimento studentesco bolognese che conobbe la sua stagione di luce e
cenere nel ’77. Già allora era disincantato profeta e coniava slogan
del tipo “Duri ma con gioia”. L’amicizia con Felix Guattari, lo studio
di Baudrillard e Debord ne hanno fatto un pensatore originale, più
apprezzato all’estero, tanto che Heroes è uscito prima in Inghilterra e
Stati Uniti e ora, con il sottotitolo Suicidi e omicidi di massa , si
accinge a pubblicarlo in Italia Baldini& Castoldi. Rispetto alla
versione originale si è aggiunta una prefazione (“Il pilota
automatico”) che aggiunge Lubitz alla schiera degli “eroi” negativi. Il
suo perché sul quale tutti ci interroghiamo da giorni è, secondo Bifo,
spiegabile come negli altri casi: che si tratti di un manager della
coreana Samsung o dello studente di una esigente università americana. A
spingerli verso il gesto estremo è il senso di inadeguatezza rispetto
alle aspettative sociali, agli obiettivi prefissati, all’idea di sé
proiettata sul muro della propria platonica caverna, il cui arredo è
stato gentilmente fornito dagli sponsor della società tardo-capitalista.
Esiste una correlazione tra capitalismo e malattie mentali, tra
neoliberismo e suicidio: si diffondono di pari passo. Necessità di
competere, ansia da prestazione, solitudine digitale, smaterializzazione
dei beni e degli affetti sono le principali ma non le uniche componenti
che hanno fatto salire nel pianeta la febbre dell’infelicità. È un
processo che appare ai più irreversibile (eravamo arrivati alla “fine
della storia”, giusto mister Fukuyama?) e quindi si viaggia verso una
diffusione della miseria, psichica prima che materiale. Dobbiamo
aspettarci che il numero di suicidi aumenti. E ne saremmo preoccupati,
ma fino a un certo punto. Lubitz non reggeva lo stress, non accettava
l’idea di rinunciare alla carriera perché cervello e fisico non lo
supportavano, come tanti non era pronto a viaggiare in seconda classe
anziché in prima, perdendo status e benefit, e ha preferito, invece di
continuare, buttarsi. Anzi, no, buttare l’aereo contro la montagna. È
qui che il suo problema diventa irrinunciabilmente collettivo. Il suo
perché ci colpisce di striscio; il suo come, al cuore.
Un suicida
“classico” si sarebbe impiccato nella sua mansarda. Un suicida “eroico”
inscena una fine spettacolare: se ne va su un carro in fiamme, bruciando
altre vite, assicurandosi che, come aveva predetto Lubitz all’ex
fidanzata, tutto il mondo conosca il suo nome. È questa la
caratteristica che lega l’atto del pilota a quello dei Breivik e degli
Atta: la spettacolarità. Sono azioni clamorose, che fanno immagine,
bucano gli schermi di tv, computer e smartphone: qualcuno dice,
attirandosi polemiche, che hanno perfino “qualità artistiche”. Di certo
mirano al grande pubblico per emozionarlo, di certo tendono
all’immortalità dell’autore, la cui vita era diventata per lui
insignificante, in quanto lo era per la società: studente fallito,
ideologo da strapazzo, pilota atterrato.
Ci sono due strati di
assurdo nella scelta di questi “eroi neri”: il primo è non saper
accettare la propria vita, i suoi alti e bassi; il secondo è
coinvolgere, come fossero responsabili in nome e per conto della
società, altri individui a caso. Il caso, senza necessità, è un dio
amorale.
Fin qui la spietata analisi di Bifo. Quanto ai rimedi, si
sconta come spesso la maledizione di Karl Rove, gran consigliere di
George W. Bush: «Noi creiamo la realtà, voi la studiate. E mentre voi
interpretate quella realtà, noi ne creiamo un’altra che voi studierete e
così via». I Bifo studiano, i Rove creano. Se il seme del male è nella
società in cui viviamo, occorrono creatori alternativi, non regressivi,
capaci di fare mondi e di agire non sull’insieme, ma sul singolo,
rendendo la sua mente aperta e disponibile all’impopolare eppur
salvifica e perfino felice ipotesi dell’insuccesso.