giovedì 2 aprile 2015

La Stampa 2.4.15
Esmahan Aykol
“I giovani stanno fuggendo. Rischiamo di ritrovarci in una teocrazia all’iraniana”
“Erdoganismo in crisi, anche in economia”
intervista di Francesca Paci


«Ci sono una ventina di teorie cospiratrici dietro gli avvenimenti delle ultime ore, ma io non sono una complottista e penso solo che qui, da oggi alle elezioni del 7 giugno, succederà ogni giorno qualcosa» ragiona la assai liberal Esmahan Aykol, autrice di romanzi cult come «Divorzio alla turca». Al caffè di Istanbul nel quale è seduta si discute del presente, ma soprattutto del futuro.
Vede una relazione tra l’omicidio del giudice di Gezi Park, l’assalto alla sede dell’Akp e la kamikaze intercettata nei pressi della stazione di polizia?
«Credo di no. Ma in particolare la storia del ragazzo che irrompe negli uffici dell’Akp con la bandiera ispirata agli anti-governativi aleviti non convince nessuno, è una messa in scena per far sentire il Paese minacciato dal terrorismo e stringere sulla sicurezza».
Il presidente Erdogan ha ancora il polso del Paese?
«Stiamo assistendo alla crisi dell’”erdoganismo” inteso come sistema di pensiero politico. Erdogan è cambiato dopo Gezi Park, la sua immagine è stata danneggiata per sempre, anche all’interno dell’Akp ha tanti nemici. L’uomo è potente e mantiene il controllo del partito e dell’intelligence, ma sembra uscito di senno, vuole cambiare la Costituzione per attribuirsi poteri presidenziali sul modello americano, agisce in modo irrazionale, c’è perfino chi dice che abbia un tumore. Per me non è mai stato democratico, neppure all’inizio, ma di sicuro non è più lo stesso che i turchi hanno conosciuto nel 2002».
Teme una svolta autoritaria nel Paese?
«La svolta autoritaria c’è già stata, la situazione oggi è peggiore rispetto al post colpo di Stato degli Anni 80. La democrazia turca è in pericolo, le elezioni del 7 giugno sono il nostro banco di prova. Io personalmente, donna liberal e senza la protezione di un uomo, ho paura».
Di cosa ha paura?
«Ho paura di una deriva conservatrice come i miei amici liberal e come le mie amiche. Una di loro ha appena comprato casa a Londra, un’altra, ebrea, ha chiesto la cittadinanza spagnola, a me domandano tutti perché non me ne sia ancora andata a Berlino. Il nostro governo flirta senza neppure troppa ambiguità con i terroristi di al Nusra e dello Stato Islamico in Siria, c’è un’aria pesante. Neppure l’economia marcia più bene come un tempo. Negli ultimi 12 anni si è sviluppato un mercato nero che ha drogato i dati sulle performance nazionali: oggi abbiamo un record di disoccupazione giovanile al 13% eppure, apparentemente, la ricchezza cresce».
Cosa fa l’opposizione? Ha chance di rappresentare un’alternativa oppure no?
«Siamo in una situazione paradossale, quelli come me, istruiti, emancipati, internazionali, rappresentano l’1 o il 2% della popolazione. Siamo nulla in termini numerici. Eppure senza di noi non si governa, siamo la faccia presentabile del Paese, l’ossatura delle istituzioni e l’élite della leadership economica. Hanno bisogno di noi, anche di quelli che hanno animato il movimento di Gezi Park, questa è la nostra forza e dobbiamo batterci alle elezioni di giugno».
Significa che lei almeno non sta pensando di andarsene. È così?
«Per una scrittrice la Turchia di oggi è materia straordinaria, oltre l’assurdo. Sto lavorando a un thriller psicologico intitolato New Turkey, come l’Akp chiama il Paese che pensa di aver forgiato. Ma le prospettive future sono spaventose, tanti amici se ne stanno andando. Temo che continuando così la Turchia possa conoscere un esodo di cervelli e una diaspora come quella iraniana».