Corriere 2.4.15
I legami lievi di Ovidio
Nell’«Arte di amare» dominano la felicità passeggera e il dolce ricordo, non il vincolo coniugale o la folle passione
di Pietro Citati
Jacques-Louis David, Amore e psiche, 1817, conservato al Cleveland Museum of Art
L
eopardi non amava la poesia di Ovidio. Ammirava, certo, la sua
prodigiosa ricchezza verbale, la sua immensa volubilità, che ricorda, a
volte, la ricchezza e la volubilità dello Zibaldone . Ma non tollerava
che Ovidio fosse un temperamento non tragico né drammatico; e che
l’amore fosse, per lui, invece che una passione profondissima del cuore,
un gioco, un’arte, un sistema intellettuale.
Questo è l’amore,
per Ovidio: un’ Arte di amare , come chiamò uno dei suoi libri più
famosi (ottimamente curato da Emilio Pianezzola, Gianluigi Baldo, Lucio
Cristante, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, p. LXVI-442, e 14);
un’arte, che si può conoscere con la mente, insegnare e imparare. Essa
assomiglia all’arte della guerra, della caccia e della pesca: a quella
dell’auriga e del timoniere. «Questa è la pista che traccerà il mio
carro, questa sarà la meta da sfiorare con la ruota veloce». «Il
cacciatore sa bene dove porre reti per i cervi, sa bene in quale valle
si aggiri grugnendo il cinghiale; e chi tende la lenza conosce i fondali
più pescosi». Se erano stati composti manuali sull’arte della guerra e
della caccia, Ovidio intende scrivere un trattato sull’arte dell’amore,
con la stessa tensione didascalica, la stessa passione di insegnare,
sebbene la gravità didascalica si rovesci molto spesso in ironia.
Ovidio
si muove in quel territorio che i greci chiamano metis , dove si
combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale,
la finzione, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità: applicati
a realtà fugaci, mobili e ambigue, che non si possono portare alla
misura precisa né al calcolo esatto. Così l’arte dell’amore è la scienza
dell’indefinibile: dove la tendenza al sistema si combina con la
coscienza che gli amori mutano, cambiano, sono diversi tra loro, e
dunque bisogna applicar loro metodi ogni volta diversi. Un trattato
amoroso (dunque anche l’ Ars amandi ) è qualcosa di impossibile:
esistono solo gli infiniti, i singoli amori, i singoli eventi, i singoli
incontri, e chi ne scrive deve possedere una mente pieghevole e
cedevolissima, quella appunto che esige la metis. La conseguenza ultima
dell’ Arte di amare è il racconto; ed essa si trasformerà, negli anni,
in quella meravigliosa enciclopedia di racconti che sono Le metamorfosi .
In
Ovidio, le Muse non dominano soltanto il regno della Memoria. Il loro
regno è molto più vasto: comprende la vita e la morte. Se accettiamo la
discussa etimologia, esse sono le «ninfe dei monti»; e all’inizio della
Teogonia, le vediamo ancora danzare, con i loro tenerissimi piedi,
attorno alla fonte dall’acqua scura come il mare. Esse hanno un rapporto
con l’acqua: l’immensa liquidità dell’universo. Non con l’acqua sterile
delle piogge, ma con quella primordiale dell’Oceano, che scende nello
Stige, e risale in tutte le sorgenti, in tutti i fiumi e i pozzi, come
nella sorgente Cassotide, a Delfi. Dove c’è una sorgente, c’è una Musa.
L’acqua dell’Oceano è supremamente fecondatrice: ha un potere vitale; è
una forza oracolare purificatrice e guaritrice. Per questo Pindaro
diceva che l’acqua è «la migliore delle cose».
Così comprendiamo
perché la poesia, specialmente in Esiodo e in Pindaro, sia una sostanza
liquida. Tutti i poeti, fino ai tempi moderni, l’hanno saputo: scrivere
poesie è l’esperienza della liquidità; e Pindaro beveva acqua — acqua di
una sorgente, acqua dell’Oceano — prima di comporre versi. La poesia,
in Esiodo e in Pindaro, è un «nettare distillato»: un continuo
scorrimento; le Muse versano sulla lingua del re-poeta «dolce rugiada»,
dalla sua bocca scorrono «dolci parole», dalla bocca di chi è amato
dalle Muse «dolce scorre la voce». In quest’acqua che non sta mai ferma
non c’è nulla di effimero: anzi è proprio lo scorrere incessante della
sostanza oceanica, che rende eterni i versi e chi li compone.
Nell’
Arte di amare , le Muse hanno un rilievo infinitamente minore. Scompare
Apollo, il dio dell’ispirazione poetica e della morte: Venere attutisce
il suo fascino; Dioniso perde la sua forza distruggitrice e diventa un
gioco incessante col vino. «L’ebbrezza, se vera nuoce, ma gioverà se è
simulata». Mentre tutto ciò che è divino scompare o si rifugia in alcuni
exempla, trionfa l’esperienza amorosa di Ovidio: la sua esperienza
singola, come nell’ Odissea trionfa l’esperienza di Ulisse. Questa
esperienza lascia cadere qualsiasi lato tragico o drammatico dell’amore:
o lo confina nelle storie scorciate, rapidissime, tratte dalla
mitologia classica. Ovidio cerca di cancellare e di eludere ogni traccia
di amore immoderato e passionale, e lo riserva alle donne.
L’amore
di Ovidio è sopratutto diurno. La notte non è adatta a giudicare la
bellezza. Con la luce del giorno e a cielo aperto Paride osservò le tre
dee, quando disse a Venere: «La vincitrice, Venere, sei tu». Di notte
non si vedono i difetti e si perdona ogni manchevolezza. L’amore non è
mai solitario: esso nasce, si sviluppa e viene coltivato nelle ampie
distese, come i Fori, dove si raccolgono le folle. L’amore è felice: le
sue vicissitudini, inquietudini, incertezze non interessano Ovidio, che
racconta solo l’amore lieto e dei tempi lieti. «L’animo festoso, e non
oppresso dal dolore, si apre da sé, spontaneamente, e Venere si insinua,
con arte di lusinga». L’uomo, al quale in primo luogo Ovidio si
rivolge, non deve mai temere che la donna gli sfugga: ogni donna può
essere presa. «Tendi solo la rete e sarà presa». Con il soccorso dei
precetti di Ovidio, tutte le difficoltà cadono: nessuna difesa resiste,
nessun rischio inquieta, nessun rivale fa temere.
Ovidio ha
un’alta idea della propria opera di poeta e di maestro. Ma non ha
un’idea grande dell’amore: l’amore, quale egli lo consiglia e lo
sistema, evita l’ambizione e l’orgoglio, ed è sempre pieno di
moderazione, discrezione, flessibilità, pieghevolezza. Il tono resta
basso: «alla mia navicella convengono vele modeste»; «da me si imparano
soltanto amori spensierati»; come è basso il tono della bucolica
virgiliana, per la quale Ovidio nutre una nascosta passione. Così egli
dà dei piccoli, deliziosi consigli: come acconciare i capelli, come
sorridere; e accompagna la sua coppia di innamorati a passeggio per la
grande città, con l’aria del tutore discreto, affezionato ed ironico.
Il
tempo passa rapidamente: fugge via tra le dita; e bisogna godere il
tempo che passa. «Finché vi è consentito, godete la vita: gli amori se
ne vanno come acqua che scorre: l’onda che è corsa via non torna più
indietro, non torna più indietro l’ora che è passata». E gli amori non
durano: Ovidio non parla mai di lunghe relazioni coniugali, che occupano
tutta la vita; ma soltanto di piccoli amori, spesso contemporanei tra
loro, che conoscono poche battute, e subito si esauriscono, lasciando
nella mente un ricordo delizioso.
Sebbene l’amore sia limpido,
comprende in sé, anzi chiede e ricerca, la simulazione. «Devi fare
l’innamorato, fingere a parole le ferite d’amore: cerca in ogni modo di
dare alla tua donna questa convinzione». L’ Ars insegnata aggiunge
convenzione a convenzione, teatro a teatro, simulazione a simulazione.
Come il poeta nasconde l’arte raffinata della sua mente nella semplicità
apparente dei versi, così l’innamorato nasconde l’infinitamente
complessa rete delle sue tecniche in una modulazione dolce e discreta.
Non soltanto egli deve celare le proprie infedeltà: ma tutte le sue
parole sono una serie di velature successive, maschere che coprono
maschere, fino a quando il vero volto non è completamente dimenticato.
«Noi cerchiamo, se non completa oscurità, almeno la penombra, un tono
più smorzato della luce vera». Questo smorzato è il tono che Ovidio
vuole raggiungere, mescolando le parole scritte, le parole parlate, i
diversi atteggiamenti, le infinite arguzie che si compiace di ostentare e
di occultare.
L’ Arte di amare può venire scritta soltanto in un
luogo: Roma, che è la capitale erotica del mondo, negli anni in cui
Ovidio scrive. «Roma è un luogo affollato di ragazze. Roma ti offrirà
tante ragazze, e così belle, che tu dirai: “questa città possiede tutto
quello che c’è nel mondo intero”». Ovidio ama appassionatamente la Roma
del suo tempo: disprezza «la rozza semplicità» del passato repubblicano,
mentre le ricchezze immense del mondo soggiogato affascinano la sua
mente. «Il Palatino, che ora rifulge sotto il segno di Apollo, altro non
era un tempo che pascolo di buoi per l’aratura. Piacciano ad altri le
cose del passato: d’essere nato al giorno d’oggi io mi rallegro. Al mio
stile di vita questa è l’epoca adatta». La politica di Augusto, che
cercava di fermare il tempo e far risorgere nei suoi anni la moralità di
Roma repubblicana, gli pare assurda, fuori luogo e insensata.
A
un tratto, l’ Ars amandi si interrompe: per qualche decina di versi
Ovidio si attarda a decorare un episodio storico o mitologico, come il
ratto delle Sabine, il volo di Dedalo ed Icaro, la storia di Cefalo e di
Procri: o il meraviglioso incontro tra Ulisse e Calipso, che chiede
all’amato di raccontargli ancora una volta la storia di Troia e della
sua caduta. Sulla sabbia del mare, Ulisse disegna di nuovo la
distruzione e l’incendio della grande città asiatica, quando un’onda
improvvisa cancella la scena e lo interrompe. Con quale eleganza, con
quale miele, Ovidio mescola il racconto e la sentenza amorosa, il
facile, il leggero, l’erudito, il criptico, il tono basso e il tono
alto, il mito, l’oggi, l’intelligente, il comune. La sua Arte di amare
era, nel profondo, un’Arte della Metamorfosi .