mercoledì 29 aprile 2015

Repubblica 29.4.15
Helmut Schmidt “Shoah, la colpa fu dei nazisti non dei tedeschi”
L’ex cancelliere ricorda la fine della guerra mondiale di cui ricorre il 70° anniversario
intervista di Matthias Nass


AMBURGO «I TEDESCHI nel loro complesso non furono complici». Ricordando la fine del conflitto di cui in questi giorni ricorre il settantesimo anniversario, l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, 96 anni, respinge il concetto di colpa collettiva dei tedeschi nella seconda Guerra mondiale. «I colpevoli furono i nazisti. C’era semmai la responsabilità collettiva che una cosa del genere non si ripetesse mai più».
Il 3 maggio 1945 Amburgo si arrese senza combattere ai britannici. Lei dov’era quel giorno?
«Ero prigioniero degli inglesi in territorio belga, in un campo vicino a Bruxelles».
Quando ha avuto la notizia dell’occupazione di Amburgo?
«Non il giorno stesso né quello successivo. Amburgo all’epoca non aveva tanta importanza per me. Importante era la fine della guerra ».
Quando è finita per lei la guerra? Quando fu preso prigioniero?
«Dentro di me sapevo già da molto tempo come sarebbe finita. Quando Hitler iniziò la campagna di Russia nel giugno 1941 capii che avremmo perso la guerra. A questo proposito litigai con Hermann Ötjen, che chiamavo zio. Era un collega di mio padre, come lui insegnante in un istituto tecnico. Era nazista, capitano della riserva, io un semplice tenente. Gli dissi che avremmo perso e che saremmo finiti a vivere in baracche se ci fosse andata bene. Qualcosa di storia sapevo e avevo davanti agli occhi il destino di Napoleone nel 1912 alle porte di Mosca».
All’epoca erano molti i tedeschi che consideravano l’attacco alla Russia un errore strategico?
«Probabilmente erano pochi. Io però, va detto, ero un tedesco storicamente consapevole, di padre per metà ebreo. Senza dubbio avevo un atteggiamento più critico rispetto alla massa. Sulla mia vita pesava l’etnia di mio padre, non dovevo farne parola con nessuno, neppure con lui. Secondo le leggi razziali ero per un quarto ebreo. Non sapevo che i nazisti avrebbero ucciso gli ebrei, ma sapevo che li consideravano avversari. Per questo non avrei mai potuto essere nazista».
Nella primavera-estate del 1945 fu prigioniero dei britannici. Quando e come venne catturato?
«Forse a marzo o a aprile. Dove lo ricordo benissimo: in un paese circa 8 chilometri a nord di Soltau, in bassa Sassonia. Ci ero arrivato a piedi, spostandomi sempre di notte. Al fronte ero stato l’ultima volta durante la ritirata seguita all’offensiva delle Ardenne, nel gennaio- febbraio 1945».
Come la trattarono i britannici?
«Decentemente. Ma non avevano da darci da mangiare». Quando nella tarda estate tornò a Amburgo che spettacolo le offrì?
«Il quadro lo conoscevo già, perché nel 1943 ero stato a Amburgo dopo il catastrofico bombardamento ».
Quando ha provato per la prima volta un senso di liberazione di fronte alla sconfitta della Germania?
«In maniera inconscia lo provai relativamente presto. La piena consapevolezza l’ho avuta forse grazie al discorso che Richard von Weizsäckers tenne in occasione del quarantennale della fine della guerra nel 1985».
Molto vicino al paese in cui venne preso prigioniero si trovava il lager di Bergen-Belsen, appena liberato dai britannici. Ne sapeva qualcosa?
«No! Ma durante l’interrogatorio mi chiesero di Bergen-Belsen. Io non ne sapevo nulla».
Non sapeva nulla dell’annientamento sistematico degli ebrei nei campi di sterminio?
«No».
Lo ha appreso per la prima volta durante la prigionia?
«Qualcosa, ma in massima parte negli anni seguenti».
All’epoca ha pensato che i tedeschi avrebbero dovuto pagare un prezzo terribile per le loro colpe?
«All’epoca non pensavo in termini politici. Non reputavo i tedeschi colpevoli globalmente. La colpa era dei nazisti. I tedeschi nel complesso non erano complici, ma tutti i tedeschi erano responsabili delle azioni compiute da altri tedeschi ».
Nessuna colpa collettiva, bensì una responsabilità collettiva?
«La responsabilità collettiva che una cosa del genere non si ripeta mai più».
Anche suo fratello era nella Wehrmacht?
«Certo. Anche mio cognato. Eravamo tutti arruolati».
Che ne è stato dei nazisti che conosceva, i suoi insegnanti o i vicini di casa?
«Conoscevo pochissimi nazisti, a parte Ötjen. Ne conoscevo due morti entrambi. Erano miei cari amici quando andavamo a scuola, Kurt e Ursel. Ursel era diventato un nazista convinto! Pianse quando seppe della morte di Hitler».
Che speranze di rinascita politica nutriva nel 1945?
«In concreto nessuna».
Il suo ingresso nell’Spd fu dovuto a Schumacher?
«No, lo devo a un tenente colonnello conosciuto in prigionia, Hans Bohnenkamp. Sotto il suo influsso già nel 1945 andai a Neugraben dai socialisti e all’inizio del 1946 mi iscrissi al partito. Nel 1946 abbiamo fatto i cartelli per le prime elezioni amministrative».
Guardando alla fine della guerra settanta anni dopo vede cicatrici ancora da sanare?
«Se guardo dalla finestra del mio studio vedo un prato verde. Accanto alla sede di Zeit un tempo c’era il ginnasio Johanneum, poi utilizzato come biblioteca finché non fu bombardato. Le rovine c’erano ancora quando entrai in questo giornale, al suo posto volevano costruire un cubo di acciaio e vetro. All’epoca mi opposi».
Queste sono le cicatrici esterne.
«La mia generazione si porterà le cicatrici nella tomba». Copyright Die Zeit.
Traduzione di Emilia Benghi