La Stampa TuttoScienze 29.4.15
L’Italia è rimasta senza una politica della ricerca
Qualcuno ha idee da proporre?
di Massimiano Bucchi
«I want my money back!». Così strillava all’Europa Mrs. Thatcher e così, secondo alcuni, dovremmo fare noi oggi. Lo squilibrio tra il contributo economico dell’Italia alla ricerca europea e la nostra capacità di ottenere fondi di ricerca comunitaria ci penalizzerebbe al punto da «pagare la ricerca degli altri». Ma questo punto di vista, facendo già ora un bilancio dei finanziamenti del programma Horizon per il 2014-2020, trascura la possibilità che nei prossimi bandi il tasso di successo dei progetti italiani cresca. Ma soprattutto rischia di farci perdere di vista alcuni punti davvero fondamentali.
Primo. L’Italia, a differenza di altri Paesi europei ha rinunciato ad avere una politica nazionale di finanziamento alla ricerca. I fondi disponibili su base competitiva sono ridotti al minimo e la loro assegnazione risulta, per usare un eufemismo, farraginosa. Il programma ministeriale «Sir» dedicato ai giovani ricercatori, dopo oltre un anno, non ha ancora terminato la selezione dei progetti e anche il nuovo «Piano nazionale della ricerca», più volte annunciato, è in ritardo di oltre un anno. Più emblematica ancora la trovata escogitata qualche anno fa per uno degli ultimi bandi per progetti di interesse nazionale: limitare il numero dei progetti presentabili da ogni ateneo. Un limite mai visto. Facendo un paragone calcistico, è come se il c.t. Conte fosse obbligato a convocare in maglia azzurra un solo giocatore per squadra e pazienza se in qualche squadra ce n’è più di uno meritevole e in altre nessuno. Un modo per dire: nessuna scelta o priorità, semmai qualche spicciolo a pioggia.
Secondo. La rinuncia ad una propria politica di investimenti sarebbe, di per sé, meno grave se fosse accompagnata da una capacità di incidere sulla distribuzione dei finanziamenti europei. Se i nostri soldi sono lì, che almeno siano spesi anche tenendo conto delle aspettative e dei bisogni dei nostri ricercatori, delle nostre imprese, dei cittadini. Purtroppo mai o quasi mai le suddette categorie sono state consultate su come e perché tra Bruxelles e Strasburgo si sia deciso di distribuire i circa 80 miliardi di euro di Horizon (più «ricco» di quasi 30 miliardi rispetto al precedente). Il futuro della ricerca europea (e quindi italiana) sta qui: in una tabellina che individua i settori più promettenti e meritevoli di investimenti, quelli che dovrebbero portarci i risultati più significativi in termini di conoscenza, sviluppo, benessere.
In sintesi: quasi un terzo della torta va alla cosiddetta «eccellenza scientifica» (European Research Council, mobilità dei ricercatori, infrastrutture, tecnologie emergenti), circa 17 miliardi alla «leadership industriale» (tecnologie della comunicazione e dell’informazione, biotecnologie e tecnologie spaziali) e la fetta più consistente, 30 miliardi, alle «sfide sociali» (cibo, clima, salute, energia), con una quota allo European Institute of Innovation and Technology.
Per dare un esempio di quanto sia importante entrare nel merito di queste scelte basta ricordare che gran parte delle risorse per le tecnologie emergenti va a due soli «progetti bandiera»: uno sul grafene e l’altro per lo «Human Brain Project». Quest’ultimo è sempre più criticato sia per le modalità di gestione sia per la decisione di puntare così tante risorse in un’unica direzione: se nei prossimi anni vi viene una buona idea sulle neuroscienze ma siete fuori dal consorzio, è probabile che dobbiate tenervela nel cassetto.
Conclusione: avete mai sentito un ministro della ricerca o qualche altro rappresentante politico o istituzionale illustrare queste decisioni e spiegarci perché queste, e non altre, sono le priorità della ricerca europea (e quindi italiana)? Negli incontri dei festival della scienza qualcuno dei nostri scienziati ha mai detto se la ripartizione riflette le priorità della comunità scientifica nazionale e internazionale? E come Paese che non ha più una politica di ricerca pensiamo che risponda ai nostri bisogni e punti di forza o l’accettiamo perché non abbiamo la capacità di discuterne con Paesi più attivi e organizzati? È su tutto questo che dobbiamo far sentire la nostra voce e chiarirci le idee, se davvero «vogliamo avere indietro i nostri soldi» per noi e per i nostri ricercatori.