La Stampa TuttoScienze 29.4.15
Edward O. Wilson, il padre della sociobiologia
“A volte angeli, spesso diavoli. Per noi ha deciso l’evoluzione”
Il conflitto è tra gruppi e individui “Se la trascendenza spinge al bene, le religioni inducono alla violenza”
di Gabriele Beccaria
«Spero di dare un contributo alla grande tradizione ispirata da Poggio Bracciolini nel Rinascimento italiano. E continuare il trend, quello che comincia con la riscoperta di Lucrezio, e capire la condizione umana. Su basi scientifiche».
A Boston Edward O. Wilson - l’entomologo numero uno al mondo e padre della sociobiologia - racconta il suo ultimo e controverso saggio, «Il significato dell’esistenza umana», pubblicato in Italia da Codice, che in realtà è il penultimo, perché il professore ha appena consegnato le bozze di «Half Earth», l’opera che considera la conclusione di una trilogia avviata con «La conquista sociale della Terra», edito da Raffaello Cortina.
«Adesso possiamo capire noi stessi molto meglio di quanto non sia stato possibile in mezzo secolo e affrontare il quadro globale», osserva. A 86 anni il professore emerito di Harvard spiega la propria verità, brutale e spogliata di appendici consolatorie: siamo chimere genetiche, oscilliamo tra santità e malvagità e, ostaggi degli strappi delle leggi dell’evoluzionismo, non possiamo contare su alcun «disegno» superiore, religioso o ideologico. Al fanatismo violento o al vuoto nichilista suggerisce quindi di contrapporre un nuovo Illuminismo, che spinga al dialogo umanisti e scienziati su ciò che dobbiamo riconoscere e indagare senza tabù e che lui definisce come «gli angeli derelitti e gli angeli migliori della nostra natura».
Professore, lei non ha paura delle polemiche, come quelle sull’evoluzionismo e sulla prevalenza della selezione di gruppo o della selezione di parentela, ma stavolta la sua ambizione vola più in alto, come rivela il titolo: arroganza di scienziato?
«No, non direi arroganza. Mi riferisco all’Umanesimo e alla nascita della scienza. D’altra parte ci si deve sempre confrontare con qualcosa: e allora cos’è meno e cos’è più arrogante della scienza? Lo sono di più le religioni organizzate, che hanno, ciascuna, le loro storie sul significato delle nostre origini. E ognuna, come si vede dagli eventi in Medio Oriente, insiste nel sostenere di possedere l’unica versione. La scienza, invece, non è uno strumento di dottrina, piuttosto un mezzo per trovare e capire. Anche noi stessi».
E in «Half Earth» lei si spinge a immaginare il nostro possibile destino. Qual è?
«All’inizio della “Conquista sociale della Terra” descrivo il capolavoro di Paul Gauguin del 1897 “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, perché mi sono ispirato proprio a quelle tre domande per i miei tre libri. Non volevo dare una risposta definitiva all’ultima, anche perché ogni giorno ci porta una nuova sorpresa sul nostro possibile domani. E tuttavia mi sono deciso ad affrontarla, perché sono un naturalista e mi interesso della biosfera. E posso quindi vedere che ciò che sta accadendo».
Qual è il suo verdetto?
«Che stiamo distruggendo gli altri 10 milioni di specie. È interessante raccogliere i dati, che pochi giorni fa ho presentato all’Università di Berkeley. Un fatto basico è questo: dei 10 milioni di specie ne abbiamo classificate solo 2 milioni e ciò significa che viviamo su un pianeta sconosciuto e da esplorare. L’altro fatto è il seguente: non sappiamo cosa stia davvero succedendo, negli atolli corallini, nei fondali oceanici o nelle foreste pluviali. Ma le ricerche rivelano che il tasso di estinzione è mille volte più alto del “base level”, il valore che esisteva prima della comparsa dell’uomo e che equivale all’incirca a una specie scomparsa ogni milione, ogni anno. E quindi la domanda è: cosa stiamo facendo?».
La risposta?
«In un secolo la percentuale di specie protette e salvate è stata circa la metà di quelle in pericolo. È uno sforzo nobile, che richiede sangue, sudore, lacrime e tanta scienza, ma la distruzione prosegue. Mi viene in mente un pronto soccorso, dove la vittima di un incidente è in pericolo di vita per un’emorragia. I medici l’hanno fermata a metà e, mentre si congratulano, l’uomo muore. Ecco quello che succede e - fatto ulteriore - il tasso di estinzione sta accelerando per una serie di cause, tra cui la principale è la riduzione degli habitat. L’Indonesia è l’esempio più terribile».
C’è una soluzione possibile?
«Dobbiamo aumentare drasticamente le aree delle riserve naturali, dove le altre specie possano sopravvivere, indipendentemente da noi».
Aumentarle di quanto?
«Fino a coprire metà della Terra. So che è un progetto che suscita un interrogativo: “È possibile?”. E la mia risposta è sì, dalla terraferma ai mari».
Crede che le opinioni pubbliche siano pronte a questo cambio di prospettiva?
«I giovani sono consapevoli che gli sforzi per la conservazione della natura, quelli che seguono le logiche convenzionali, non funzionano. Non c’è dubbio che oggi il mondo stia diventando più “verde” e mi piace tanto Papa Francesco, quando dichiara che ogni specie è preziosa per Dio. Ma c’è un problema: ci preoccupiamo dei cambiamenti climatici e delle fonti di origine fossile, mentre abbiamo quasi dimenticato l’ambiente degli esseri viventi. Dobbiamo invece concedere loro la stessa attenzione».
Nel «Significato dell’esistenza umana» lei sottolinea due «maledizioni» che ci portiamo addosso: il tribalismo e le religioni organizzate.
«Il tribalismo resta un tema controverso, ma molti genetisti sono d’accordo con me sulla legge della selezione di gruppo e quindi sulla competizione tra gruppi. Tante prove dimostrano che anche le scimmie formano delle tribù e si scontrano per il territorio e per le risorse, scatenando conflitti a volte violenti. È un processo che ha avuto delle conseguenze anche nella nostra evoluzione e nell’organizzazione dei geni e, infatti, lo stesso Darwin ha spiegato molti nostri comportamenti con la logica del “gruppo contro gruppo”. E oggi la possiamo recuperare e applicare a un livello più sofisticato».
In che modo?
«Si tratta di un istinto fondamentale dell’umanità, anche se c’è chi obietta: “Oh no! Noi siamo una specie cooperativa!”. Certo che lo siamo, però pensiamo alle guerre della storia: l’amiamo, la guerra, e amiamo ritualizzarla, come accade con il football. Dobbiamo, di conseguenza, elaborare una visione più realistica di noi stessi. Torno a Poggio Bracciolini e al XV secolo: anche lui sosteneva la necessità di un’idea realistica dell’umanità, basata su evidenze naturali. La spiegazione deve provenire dalla scienza».
Lei definisce le religioni «una fonte di sofferenze senza fine», ma anche la trascendenza fa parte di noi: dov’è il punto d’equilibrio?
«Non credo che sia l’ateismo assoluto. Ritorno alla selezione di gruppo: se è stata - come ritengo - una forza che si è opposta alla competizione tra individui, questa realtà ha avuto implicazioni enormi. E mi spiego. Nel lontano passato si sono manifestati due livelli dell’evoluzione: all’interno dei gruppi gli individui egoisti sconfiggono quelli altruisti, mentre tra gruppi diversi, che entrano in conflitto, gli altruisti sconfiggono gli egoisti. Dallo scontro nascono gli istinti e anche la nostra creatività, ma è la selezione all’interno del gruppo a creare alcune tra le conseguenze più orrende, come le guerre di religione e i crimini basati sulla fede. Allo stesso tempo ci si aspetterebbe che la cooperazione altruistica si sia ugualmente evoluta e tuttavia nella storia della vita i casi sono rari».
Lei li ha anche contati, giusto?
«Quelli noti sono appena 19, se si studiano le specie sociali. Prevale invece la selezione di gruppo - anche se continua a essere negata da alcuni studiosi - che non consiste solo nel comportamento collettivo e nella gioia di sconfiggere un’altra tribù o un altro team. È capace anche di generare valori trascendenti: noi umani, infatti, ci siamo evoluti per essere anche cooperativi e altruisti. Siamo in grado di diffondere la pace e di provare affetto e amore verso gli altri. Sono questi aspetti gli angeli migliori della nostra natura. E sono le motivazioni che muovono, per esempio, sia l’Onu sia la Chiesa cattolica, anche se entrambi hanno fatto molti errori. Ed ecco, perciò, qual è il punto, come lo vedo io».
Ce lo spieghi.
«La selezione di gruppo e la selezione individuale hanno creato la condizione umana: combinate l’una con l’altra, anche se si trovano in un eterno conflitto. L’instabilità è ciò che ci rende interessanti come specie e la religione è l’espressione della solidarietà che nasce dalla selezione di gruppo, sebbene questo desiderio di spiritualità sia segnato dall’ambivalenza. Ciascuno di noi, infatti, sperimenta emozioni di tipo religioso legate alla vita dopo la morte e al significato del tutto. Sono queste a far scaturire molti comportamenti indirizzati al bene della società. E tuttavia nella storia è anche accaduto che la fede religiosa - l’insieme dei miti di specifici gruppi - costituisse lo strumento tribale con cui assicurare il dominio di alcuni su altri. Così la fede religiosa ha finito per sequestrare la religione dei principi trascendenti».
C’è qualcosa che noi umani dovremmo imparare dalle sue amate formiche?
«Nulla! Zero di zero! Almeno dal punto di vista dell’etica: le loro colonie, per esempio, sono domini femminili e, per quanto io appoggi il femminismo, trovo che le formiche lo spingano troppo in là. Scherzi a parte, studiandole, si rivelano interessanti. Vivono in un mondo chimico, basato sul linguaggio dei feromoni, come la maggior parte della altre specie terrestri, piante comprese, mentre noi umani siamo audio-visuali e percepiamo solo una piccola porzione di ciò che ci circonda. Così dalle formiche capiamo molto sulla realtà che ci sovrasta».
Dalle formiche, alieni del Pianeta Terra, a E.T.: lei prevede che presto avremo le prove della loro esistenza. Da loro potremo imparare e compiere un decisivo salto intellettuale?
«Potremmo, ma non ci conto! Intanto, però, non parliamo male delle formiche. Ne abbiamo bisogno. Guai se pensassimo di sbarazzarcene».