La Stampa 29.4.15
I cinque martiri dimenticati del Risorgimento di Gerace
I giovani carbonari che guidarono la rivolta contro i Borbone furono fucilati il 2 ottobre 1847 e gettati in una fossa comune
di Mimmo Gangemi
L’agonia della morte continua a inquietare la notte. Lacera improvvisa il silenzio. E intasa il cielo di urla strazianti e di gemiti dolorosi. Si sollevano dalla Fossa della Lupa e si lasciano condurre dalle folate del vento lungo le viuzze di Gerace. Passano davanti al Castello, prendono velocità nella discesa fino alla Cattedrale normanna, giungono in piazza del Tocco. E poi al Convento dei Cappuccini, nel cui piazzale si consumarono le vite. Lì, una sosta, il tempo di confondere tra i rumori del mondo la scarica dei quaranta colpi di fucileria e le grida inneggianti a Pio IX, alla Costituzione e a un’Italia ancora da costruire una e sola e che già colava sangue. Quindi, di nuovo indietro ad accucciarsi nel fosso.
Magie che succedono il 2 ottobre. Ma solo quando si verificano condizioni simili a quel 2 ottobre 1847, un giorno che ancora si stropicciava gli occhi di sonno ma già era accalorato, per l’estate trascinatasi fin lì dimentica che le toccava arrendersi all’autunno – questo si faceva riconoscere dalla fragranza della frutta matura che si contendeva l’aria con l’odore del mosto appena spremuto e con i profumi saporosi dell’uva passita del Greco e del Mantonico. Il giorno era anche ventoso, con un grecale che s’era inerpicato dalla Riviera dei Gelsomini e, appena su, era rimbalzato indietro, sconfitto, dalla rupe di arenaria su cui si adagia la città, l’aveva aggirata assecondando i contorni sinuosi e penetrata. E lì s’era alleato al filo di scirocco scampato al lungo tragitto dal deserto d’Africa. Assieme, avevano percorso i vicoli, fischiato i muri, sagomato le facce grinzose dei vecchi, loro in piedi all’orario di sempre.
Fede liberale
Non incute timore, l’agonia della morte. Perché tutti sanno che è l’ultimo palpitare di vita dei martiri della rivoluzione del 1847 mentre i quaranta colpi della fucileria ne sciancavano le carni.
Erano cinque giovani carbonari. Avevano tra i ventitré e i ventotto anni. Appartenevano a famiglie facoltose della Locride. Avevano intrapreso studi di giurisprudenza a Napoli. Ne erano stati espulsi appena scoperta la loro fede liberale e che erano vicini a gruppi di cospiratori. Il Comitato di Napoli li aveva scelti per guidare l’insurrezione nel Distretto di Gerace, che doveva deflagrare assieme a quelle di Messina e di Reggio, scintille da cui poi sprigionare il fuoco in tutto il Regno delle Due Sicilie.
La miglior gioventù
A Reggio i liberali ebbero la meglio e il 2 settembre 1847 s’insediò un governo provvisorio. Nel Distretto di Gerace alla rivolta partecipò la migliore gioventù. A Capo Spartivento si impadronirono di una nave doganale, sbarcarono a Bianco, occuparono Caraffa, Bovalino, Ardore, Gioiosa Jonica, Roccella, Siderno, irrobustendo le fila dei rivoltosi. Estesero l’insurrezione all’intero Distretto senza versare una sola goccia di sangue. Nei giorni della repubblica emanarono un proclama rivoluzionario, dimezzarono il costo del sale e dei tabacchi, consentirono di attingere acqua dal mare, vietata dalle leggi dei Borbone!, e catturarono Antonio Bonafede, il sovrintendente del Distretto, già responsabile della fucilazione dei fratelli Bandiera tre anni prima. Lo sottrassero al linciaggio.
Il 6 settembre, il rabberciato esercito, confluito a Roccella, avvistò un mercantile, in rada per rifornirsi di acqua e di viveri, lo scambiò per un brigantino borbonico, da guerra, carico di truppe inviate per stroncare la rivolta, e si sbandò, pure perché era giunta notizia che a Messina i moti non erano nemmeno iniziati e che a Reggio erano già stati soppressi. I cinque promotori vennero catturati e processati a Gerace, in tutta fretta, di notte, su ordine dell’ingrato Bonafede, per scongiurare che il generale Nunziante, in arrivo con le truppe, potesse decidere la grazia. Furono fucilati il mattino del 2 ottobre nei pressi del Convento dei Cappuccini. Davanti al plotone d’esecuzione inghiottirono avidi i fiati pregni degli odori dell’aria – sapeva delle erbe della campagna, della terra rivoltata dall’aratro, del salmastro risalente dalla marina – e volsero gli occhi a colmarli di mondo, sul borgo medievale già operoso e sul mare sullo sfondo, con riccioli schiumosi, punteggiato di barche, avvolto da una foschia che anticipava l’orizzonte e confondeva cielo e acque.
Nella fossa comune
I corpi furono gettati in una fossa comune – la Fossa della Lupa – per disprezzo, per un monito da accoppiare all’uccisione, per renderli anonimi come la crozza siciliana trapassata senza un tocco di campane. L’Italia di allora si indignò – molti, per ricordare e onorare il martirio, portarono il cappello alla calabrese. Ma presto si stese ingrata la polvere del tempo e se ne perse la memoria. Accadeva a Gerace, uno tra i borghi più belli e suggestivi d’Italia. Che appare oggi uguale ad allora. Il tempo e la pacchiana modernità non hanno infierito come è successo un po’ ovunque altrove. E inducono ammirazione i muri antichi, fregiati o nudi d’intonaco, le coperture in coppi, il selciato delle stradine, le chiese, i palazzi d’epoca, la cattedrale, i ricchi portali, i sottopassi, gli archi, i vani scavati nella roccia. Convivono, in incantevole armonia, il bizantino, il normanno, il gotico, l’angioino, il romano e il romanico, persino un pregevole barocco negli altari di alcune chiese.
La lapide
Nella conservazione c’è di certo qualcosa germogliato da quel sacrificio lontano. Lo spirito dei cinque martiri è rimasto impregnato nell’aria, incrostato ai muri, trasmettendo pensieri di civiltà. Nel 1931 Gerace, mai dimentica, ha eretto un monumento alla memoria. Sulla lapide, la scritta: «Ripetano i secoli che qui vennero fucilati il 2 ottobre 1847 Michele Bello da Siderno, Pietro Mazzoni da Roccella, Gaetano Ruffo da Bovalino, Domenico Salvadori da Bianco, Rocco Verduci da Caraffa. Precursori di libertà».
I secoli tacquero invece, non ci si imbatte nei cinque quando si scorrono gli eroi del Risorgimento. Che si ripari: furono martiri i cui nomi devono riecheggiare nelle cronache della storia d’Italia.