domenica 26 aprile 2015

Repubblica 26.4.15
L’eterna illusione del primitivismo alla Rousseau
di Valerio Magrelli


SCIENZA , tecnologia, narrazione e intrattenimento sembrano follemente catturati dall’idea di proiettarsi nella “preistoria”, o meglio, in ciò che oggi reputiamo tale.
La precisazione si rende necessaria in quanto un oggetto del genere non può che avere radici immaginarie. Nell’indicare in maniera generica l’enorme quantità di tempo che precede la “storia”, esso lascia campo libero a ogni interpretazione. Così, dopo il successo della fantascienza, vediamo trionfare il suo opposto; speculare, sì, ma altrettanto fantastico. In cronica crisi, la nostra società può rivolgersi giusto alla preistoria, una preistoria mentale e ipotetica, un vero e proprio luogo dello spirito. Una sorta di isola che non c’è, quasi un Eden mancato a cui, con la forza della nostra volontà collettiva, cerchiamo di sbarcare in maniera virtuale.
Logicamente, davanti a questa moda, viene da pensare all’illustre precedente del primitivismo, una corrente che, verso il Diciottesimo secolo, indicava la dimensione più autentica dell’essere umano nell’abbandono della civiltà e nel ritorno a uno stile di vita primigenio. Fra i suoi rappresentanti più celebri va si ricordano Jean-Jacques Rousseau (che auspicava il ritorno allo “stato di natura”, additando nel progresso la causa della diseguaglianza) e Henry David Thoreau (il quale, dall’altra parte dell’oceano, cantava “la vita nei boschi” con il romanzo Walden , poi eletto a vangelo della Beat Generation). Una visione che ha influenzato anche la pittura, con tanti artisti – pensiamo a Matisse e Picasso – che hanno inserito tra le loro fonti d’ispirazione l’arte originaria del paleolitico e del neolitico.
Qui, però, bisogna fare attenzione, perché ora i segnali da decifrare non riguardano l’abbandono della modernità e il bisogno di una vita austera. Non stiamo cioè parlando del film Into the wild di Sean Penn, tratto dall’omonimo libro di Jon Krakauer (Corbaccio) con il suo amore per una natura incontaminata, bensì della “preistoria” in senso letterale, quella che, per intenderci, irrompe in una fra le più controverse sequenze girate da Terrence Malick in The Tree of Life, Palma d’oro al Festival di Cannes del 2011. Che ci fa l’improvvisa comparsa di un dinosauro, nel bel mezzo di un quadretto fa- miliare ambientato nella provincia texana degli anni Cinquanta? Se l’accostamento non suonasse blasfemo, il riferimento potrebbe scavalcare Malick e toccare i cartoni animati dei Flinstones. D’altronde, anche in questo caso, non siamo certo di fronte a una novità. Basti pensare al genere letterario della “finzione preistorica”. Nato verso il 1860 tra Europa e Stati Uniti, questa tendenza culminò nel celebre romanzo La Guerra del fuoco di J.—H. Rosny padre (1909), passando da Cacciatori di renne a Solutré di Adrien Cranile (1872), fino a Madame de Neanderthal di Marylène Patou- Mathis (2014).
Ma per capire meglio la questione dobbiamo forse rivolgerci a un filosofo. Nel 1955, a quindici anni dalla scoperta della caverna di Lascaux, Georges Bataille, folgorato dalle pitture del sito, pubblicò infatti un saggio intitolato La pittura preistorica. Lascaux o la nascita dell’arte. Un tempo, vi leggiamo, la vera nascita dell’arte, l’epoca della mirabile fioritura dell’essere umano, sembrava essere molto più vicina a noi. Si parlava di miracolo greco, ed era a partire dalla Grecia, che l’uomo ci appariva pienamente nostro simile. Ebbene, afferma Bataille, «il momento decisivo della storia dev’essere spostato molto più indietro. In effetti, ciò che differenzia l’uomo dalla bestia, ha assunto la forma spettacolare di un miracolo, ma non dovremmo parlare di un miracolo greco, bensì del miracolo di Lascaux».
E oggi? Beh, oggi sembra tornare più che mai d’attualità lo slogan Il futuro non è più quello di una volta , titolo del libro firmato dal grande poeta statunitense Mark Strand (minimum fax): una frase piena di senso che, applicata all’oggi, ci suggerisce come di fronte all’ansia per l’avvenire abbiamo finito per innamorarci delle nostre radici ancestrali. E se i francesi hanno addirittura replicato le grotte preistoriche, come quella di Chauvet, per far fronte alle masse di visitatori, una cosa è certa: non solo il futuro non basta più, ma di preistorie, ormai, ce ne servono due.