Repubblica 26.4.15
Giorgio Ruffolo
“Avevo un sogno da economista migliorare la vita della gente”
La liberazione Ricordo i bombardamenti di San Lorenzo, i morti, la paura che potesse toccare ai miei fratelli partigiani
Quando tutto rinacque la città sembrò piena di speranza
colloquio con Antonio Gnoli
DI GIORGIO Ruffolo ricordo le apparizioni pubbliche. Rare e forbite. I suoi interventi dotti da keynesiano convinto. Ora è un’altra persona. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo». Il volto che mi guarda e mi parla, in un pomeriggio di sabato, dentro una Roma pressoché deserta, mostra un’ansia particolare. Ruffolo vive in una grande casa. Molto borghese. A ridosso di via Veneto. Ma tutto lo spazio ornato di quadri, di libri, di oggetti è come se non lo interessasse. Le tende semichiuse lasciano filtrare una luce fioca. Un uomo in penombra mi è di fronte: «Ora che la parte biologica sta prendendo il sopravvento su quella sociale mi pare di essermi incamminato su un’altra strada, meno certa, meno luminosa, dove tutto ciò che si è amato e sognato resta prigioniero nella mente, non è più condivisibile con gli altri».
Perché non dovrebbe continuare a esserlo?
«Non c’è una ragione precisa. Si entra, dopo una certa età, in una zona in cui il disinteresse assume una sua purezza infantile. E lì accade che i vecchi amano e sognano molto meno. Quei pochi sogni che faccio mi sembrano cani da guardia. Abbaiano, ringhiano, mi lasciano solo. Con i miei dubbi e le mie assenze».
Quanto l’aiuta pensare di essere stato un economista, uno studioso riconosciuto e apprezzato?
«Conta poco o niente. Oddio, se hai fatto poche corbellerie magari ti verrà riconosciuto da qualcuno che ti dirà anche bravo. Ma se getto lo sguardo a cosa è diventata l’economia, la strada che ha intrapreso negli ultimi decenni, non posso non pensare che le nostre voci inascoltate hanno fallito. O meglio sono risultate troppo deboli di fronte all’avanzata impetuosa del capitalismo».
È la parola “capitalismo” che sembra svuotata di senso.
«Forse. Quando mi occupavo di economia la prima cosa che pensavo era: come riusciremo a far star meglio le persone? L’economia che ci ha travolto non ha dato risposte. Come si può pensare che sia equo un sistema in cui per uno che sta bene dieci o cento soffrono?».
C’entra qualcosa questo discorso con la felicità e l’infelicità?
«No, non lo penso. È stato detto che l’economia è una scienza triste. Ma è una tristezza che non c’entra nulla con l’infelicità. Mio padre diceva spesso: se discuti di economia non dimenticare il problema della fame. L’economia non parla di individui, di storie private. Si aggrappa alle statistiche, al calcolo, alla razionalità. La tristezza è nel cercare a tutti i costi di ridurre l’uomo a un numero. Ma la fame, in qualunque forma si presenti, è di nuovo qui, tra noi. I bisogni primari tornano a essere minacciati».
Cosa faceva suo padre?
«Era capo di gabinetto dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura. Questo prima che arrivasse la Fao. Si occupava, insomma, dei problemi legati allo sviluppo e alla fame. Anch’io volevo fare l’economista. Seguire le orme paterne. Mi laureai in Giurisprudenza nel 1947. Ricordo Roma liberata. Sulle facce delle persone c’erano ancora i segni della guerra ».
Come furono per lei quegli anni?
«Avevo 13 anni quando scoppiò la guerra. Due fra- telli più grandi che combatterono. La mamma piena di apprensioni. Ma non ci fu mai pericolo per me. Vivevamo nel quartiere di San Giovanni. Ho un ricordo del bombardamento di San Lorenzo. I morti allineati per strada. La paura che potesse toccare a qualche caro. La ferocia dei tedeschi e dei fascisti dopo il 1943. I miei fratelli Nicola e Sergio, diventati partigiani, furono arrestati. Entrambi furono presi la notte dell’8 maggio dal famigerato Giuseppe Bernasconi ».
Chi era?
«Uno dei capi della Banda Koch. Li bendarono, li fecero salire su una macchina e li portarono alla pensione Jaccarino. Un luogo ribattezzato il “buco” dove si usciva solo per essere fucilati o torturati in via Tasso. Prendevano chiunque fosse sospettato di attività antifascista. Nell’aprile del 1944 la Banda Koch aveva arrestato Luchino Visconti. Riuscì a salvarsi, nonostante fosse stata emanata sentenza di morte nei suoi riguardi, grazie all’intervento di Maria Denis, un’attrice dei telefoni bianchi che si diceva fosse l’amante di Pietro Koch».
Come si salvarono i suoi fratelli?
«Nicola riuscì a fuggire da un camion, che lo trasportava in una località a Nord di Roma, insieme ad altri condannati, per essere fucilato. Rocambolescamente fece perdere le sue tracce nella campagna romana. Sergio sarebbe stato liberato solo con l’arrivo degli alleati». Lei come visse quei momenti?
«C’era una comprensibile angoscia in famiglia. Vista la mia età non mi sono mai sentito in pericolo. Ero fiero dei miei fratelli. Il loro comportamento avrebbe influito sulle mie scelte antifasciste del dopoguerra ».
Roma era davvero una città aperta?
«Durante la guerra si percepiva il silenzio, la solitudine, la tristezza, la paura. Quando tutto rinacque anche il volto urbano cambiò. La città sembrava piena di speranza e di occasioni. Mi misi a studiare seriamente economia. Poi venne il lavoro. Alla Bnl, a Parigi per un periodo all’Ocse e infine all’Eni dove feci una carriera folgorante con Enrico Mattei».
Come fu il rapporto con Mattei?
«Di fascinazione assoluta. Pur nei tanti difetti Mattei conservava un carisma unico. Era un comandante ».
Cosa vuol dire vivere all’ombra di un grande potere?
«Subirlo, certo. Ma anche condividerne l’avventura ».
Le piaceva il potere?
«A chi non piace? Ma più che per i risultati materiali per quell’aura che ogni forma di potere sa infondere. Per Mattei il potere era progetto, sguardo rivolto al futuro e pugno di ferro. Non avrei mai avuto la sua determinazione. Un economista è condannato alla riflessione più che all’azione».
Del suo ambiente chi ricorda con maggiore affetto?
«Paolo Sylos Labini che aveva saputo declinare l’economia in modo concreto. La sua analisi delle classi sociali è l’ultima grande impresa in un’Italia poco studiata. Ma ci sono ancora le classi? Un altro economista che mi affascinava era Federico Caffè. Era un personaggio fuori dagli schemi. Per lui l’economia fu un’esperienza vitale. Mi colpiva il suo impegno morale».
Cosa pensa della sua scomparsa?
«Quel mistero di uomo inghiottito nel nulla si confonde con il mistero della nostra esistenza. La sua sparizione fu un dolore enorme per i suoi allievi. Sapeva farsi amare. Come un padre. I grandi economisti sono rari».
Uno di questi fu certamente Piero Sraffa. Lo ha conosciuto?
«L’ho incontrato una sola volta. Ero insieme con Giorgio Fuà. Durante il periodo in cui ospitavamo spesso gli economisti della scuola di Cambridge, di cui Sraffa faceva parte. Avevo letto il suo Produzione di merci a mezzo di merci , un libro breve che condensava una visione classica dell’economia e polemica nei riguardi delle teorie marginaliste. Ma confesso che non ci capii molto. Era un testo enigmatico come del resto lui: un uomo pieno di segreti».
Amico di Gramsci.
«E di Wittgenstein. E anche di Keynes che ne apprezzava il talento. Ho ammirato la leggenda Sraffa. Singolare, amico dei comunisti italiani senza mai esserlo stato ufficialmente».
Anche lei è stato amico dei comunisti?
«Sì, ma senza farmene inghiottire. Fui perfino trotskista e poi socialista. Antonio Giolitti mi chiamò al Bilancio e poi Craxi al nuovo ministero dell’ambiente ».
La sinistra riformista che colpe ha avuto?
«Di aver parlato molto di programmazione e democrazia ma di aver concluso assai poco. C’è qualcosa di profondamente inemendabile in questo paese ».
Cosa?
«L’attaccamento ai piccoli e grandi privilegi. Ci voleva rettitudine, talento, una solida base di conoscenza perché le cose potessero cambiare. E ci voleva la passione. Quando mio nonno, Alfonso Rendano, che è stato un grande pianista, mi disse prima di morire, “sappi che la vita è come questo pianoforte, devi scoprire dove sta l’anima e tirarla fuori, se vuoi ottenere grandi risultati”, mi stava ricordando che senza passione non si fa nulla di rimarchevole».
Le sue passioni dove l’hanno condotta?
«Sono stato uno studioso con la passione dell’agire politico. Non è andata come speravo. Tradurre le leggi dell’economia in vita concreta è quanto di più difficile si possa immaginare. Mi piaceva Caffè anche per quel suo agire con fede».
E la sua di fede?
«La mia fede è di non avere fede. Sono stato educato in una famiglia laica. Giunto a quasi novant’anni mi sembrerebbe curioso cedere ai principi di qualche religione».
Che bilancio fa della sua vita?
«Mah! C’è in me resistenza a tirare le somme. Altrimenti credo non ci sarebbe il silenzio sconcertante che avverto dentro».
È un silenzio di pacificazione o tormento?
«Tutto oggi assume la forma di tormento, tanto nel corpo che nella mente».
Ha usato l’aggettivo “sconcertante” perché?
«Perché mi evita l’assunzione di responsabilità».
Non capisco.
«Si arriva a un punto dell’età che lascia sullo sfondo la responsabilità. Non è più in primo piano. La responsabilità è per chi assume decisioni che coinvolgono gli altri. Mi sconcerta sapere che l’esistenza è intrappolata in poche funzioni fisiologiche».
Le dispiace non prendere più decisioni?
«Una volta colmavano la mia vita e questo oggettivamente non c’è più. Non può esserci più perché vivo una stagione diversa. Cambiano i rapporti con le persone e con le cose. La mia vita poggia sull’oscura materia del sonno».
È una condizione diversa.
«Ne avrei fatto volentieri a meno. Essere risparmiati dalla malattia e dal dolore. Cosa può chiedere un vecchio se la ragione traballa e non c’è neanche un Dio cui prestare fede?».
Resta ciò che si è fatto, le tracce lasciate. L’identità e la memoria.
«È una scena che si è ripetuta miliardi di volte. La storia dell’umanità è piena di tracce. Di eventi. Di uomini famosi. Le assicuro che a un certo punto tutto diventa trascurabile. Forse per questo la memoria comincia a perdere colpi. Si affievolisce la sua forza meccanica. Il flusso dei ricordi va e viene. Appare e scompare. Si interrompe e riprende. Una forma di protezione e di abbandono».
Ma anche una malattia?
«Certo, senza rendersene conto crescono i silenzi nella memoria. Mi accade di percepire questa strana forma di silenzio. Ora lei è qui e io vigile la osservo e le parlo. Ma quando sarà andato via, cosa accadrà? Sarà ancora presente o cancellato?».
Cosa prova davanti all’incertezza?
«Mi infastidisce. Tutto ciò che non controllo alla fine mi dà fastidio. È la parte razionale che ancora lotta. Le mie giornate non hanno più nulla di normale. Sono segnate da questa malattia ridicola».
Ridicola?
«Sì, ridicola. Colpisce uno dei centri del cervello e ci lascia oscillare tra presenza e assenza. Qualche volta immagino di prendere in giro la gente che mi conosce. Perché in realtà non mi sento affatto malato. Non c’è niente che si riveli attraverso il dolore. Me ne vergogno, ma il mio male non si manifesta attraverso la sofferenza. Dovrei rassicurare chi mi sta vicino. Ma non mi spingo fino a questo punto».
Che cosa la ferma?
«Dopotutto avverto quello che mi sta accadendo. Vorrei a volte dire agli amici: non preoccupatevi. Sono sempre io. Cercate di capire. Ma poi so che non c’è più niente da capire. La cosa buffa è che non mi vengono pensieri di morte. Sento spesso che la noia è in agguato. Ho paura della noia. Resisto alla noia col retaggio di una vita attiva».
Davvero non se la sente di tirare un bilancio?
«La mia faccia è vecchia, le mie mani sono vecchie. Le mie gambe faticano. Ma il presente ha più rughe e cicatrici di me. Ecco la cosa terribile: la stanchezza di questo presente. Talmente veloce da sembrare immobile. Che bilancio potrei fare, allora? A chi importerebbe? Si guardi in giro: non c’è più nulla di rassicurante. Di me tutt’al più potrei dire: economista e trapezista».