domenica 26 aprile 2015

Repubblica 26.4.15
Oliver Sacks
Sto bene sono malato
di Oliver Sacks


“Per dieci giorni sono stato da schifo, poi all’improvviso un pomeriggio mi sono sentito una persona completamente diversa.
Bellissimo
Il mio chirurgo dice che ha eliminato i topi in cantina”.
Il celebre neurologo racconta la sua lotta al cancro.
“Spero di passare così i mesi che mi restano”

QUANDO ARRIVAI A NEW YORK, quasi cinquant’anni fa, i primi pazienti che visitai soffrivano di attacchi di emicrania (“emicrania comune”, così chiamata perché colpisce almeno il dieci per cento della popolazione; io stesso soffro da sempre di attacchi di emicrania). Visitare questi pazienti, cercare di capirli o aiutarli, ha rappresentato il mio apprendistato in medicina e ha portato al mio primo libro, Emicrania. L’emicrania comune può presentarsi in molti modi (verrebbe da dire innumerevoli) e nel mio libro ne ho descritti un centinaio: ma il segnale più comune in assoluto, spesso, è una sensazione, indefinibile ma innegabile, che ci sia qualcosa che non va. È esattamente quello che diceva Emil Du Bois-Reymond quando, nel 1860, descrisse il suo attacco di emicrania: «Mi sveglio», scriveva, «con una sensazione generale di disordine… ». Nel suo caso (soffriva di emicranie ogni tre o quattro settimane, da quando aveva dodici anni) avvertiva «un leggero dolore nella zona della tempia destra, che raggiunge la massima intensità a metà giornata; verso sera di solito passa. Se sto a riposo il dolore è sopportabile, ma se mi muovo diventa violentissimo. Reagisce a ogni pulsazione dell’arteria temporale ». Durante le sue emicranie, Du Bois-Reymond appariva anche diverso: «Il viso ha un’espressione pallida e infossata, l’occhio destro è piccolo e arrossato». Durante gli attacchi violenti provava nausea e «disturbi gastrici». La «sensazione generale di disordine» che spessissimo segna l’inizio delle emicranie può proseguire, diventando sempre più accentuata nel corso di un attacco: nei casi più gravi, il paziente arriva a rimanere steso in uno stato di cupo stordimento, mezzo morto o soffrendo a un punto tale da desiderare la morte.
I sintomi vascolari e viscerali dell’emicrania sono tipici di un’attività sfrenata del sistema nervoso autonomo parasimpatico, ma possono essere preceduti da uno stato fisiologicamente opposto. Per alcune ore prima di un’emicrania ci si può sentire pieni di energia, perfino di una sorta di euforia (George Eliot diceva di sentirsi «pericolosamente bene» in quei momenti). In modo analogo, e soprattutto se la sofferenza è stata molto intensa, può esserci una «risalita» dopo un’emicrania. L’ho riscontrato con grande evidenza in uno dei miei pazienti (il caso n. 68 in Emicrania), un giovane matematico con emicranie fortissime: per lui la risoluzione di un’emicrania, accompagnata da un rilascio molto abbondante di urina chiara, era sempre seguita da un’esplosione di pensiero matematico originale. «Curare» le sue emicranie, scoprimmo, «curava» la sua creatività matematica, e scelse, di fronte alla sua strana economia di corpo e mente, di tenersi entrambe.
Queste nuove considerazioni (o vecchie considerazioni in forma nuova) su malattia e guarigione sono venute fuori quando mi sono messo a ripensare ai miei primi pazienti, ma hanno acquisito una rilevanza inaspettata a seguito di un’esperienza personale di tutt’altro genere che ho avu- to nelle ultime settimane.
Lunedì 16 febbraio mi sentivo bene; ero nel mio stato di salute consueto, quantomeno la salute e l’energia che un ottantunenne abbastanza attivo può sperare di avere: e questo nonostante avessi appreso, un mese prima, che gran parte del mio fegato era occupato da metastasi tumorali. I medici mi avevano suggerito diversi trattamenti palliativi per ridurre il carico di metastasi nel fegato e prolungare la mia vita di qualche mese. La cura che avevo scelto, quella che avevo deciso di provare per prima, consisteva nell’inserimento di un catetere da parte del mio chirurgo, un radiologo interventista, attraverso la biforcazione dell’arteria epatica, con successiva iniezione di una massa di minuscole “perline” nell’arteria epatica destra: da lì sarebbero state trasportate alle arteriole più piccole e le avrebbero ostruite, interrompendo il flusso di sangue e ossigeno necessario alle metastasi: in sostanza, l’obbiettivo era farle morire di fame e di asfissia. (Il mio chirurgo, che ha un dono per le metafore pregnanti, ha paragonato questo metodo all’eliminazione dei ratti in una cantina, o, con un’immagine più piacevole, a un tosaerba che falcia i soffioni nel giardino dietro casa.) Se questa embolizzazione si fosse dimostrata efficace, e tollerata dall’organismo, dopo un mese o giù di lì avremmo potuto provare a usare lo stesso metodo sull’altro lato del fegato (i soffioni nel giardino davanti casa).
La procedura, anche se relativamente benigna, avrebbe provocato la morte di un’enorme quantità di cellule di melanoma (quasi il cinquanta per cento del mio fegato era occupato da metastasi). Queste cellule, morendo, avrebbero emanato una serie di sostanze sgradevoli e dolorose, e queste sostanze avrebbero dovuto essere rimosse, come qualsiasi materia morta all’interno del corpo. Questo immenso lavoro di smaltimento rifiuti sarebbe stato assegnato alle cellule del sistema immunitario — i macrofagi — specializzate nel fagocitare materie estranee e materie morte all’interno del nostro organismo. Potevo immaginarmeli, diceva il mio chirurgo, come milioni, se non miliardi, di minuscoli ragnetti che zampettano dentro di me fagocitando i resti del melanoma. Questo enorme lavoro cellulare avrebbe prosciugato tutte le mie energie e avrei provato, di conseguenza, una stanchezza mai provata prima, per non parlare dei dolori e di altri problemi.
Sono felice che mi avesse messo in guardia, perché il giorno seguente (martedì 17 febbraio), poco dopo essermi risvegliato dall’embolizzazione (era stata eseguita in anestesia totale) sono stato assalito da una sensazione di stanchezza straziante e da attacchi di sonno così repentini che crollavo addormentato nel mezzo di una frase o di un boccone, o mentre alcuni amici venuti a trovarmi parlavano o ridevano ad alta voce a un metro di distanza da me. A volte venivo preso da delirio nel giro di qualche secondo, perfino mentre stavo scrivendo qualcosa a mano. Mi sentivo estremamente debole e inerte; certe volte rimanevo seduto senza muovermi finché due assistenti non mi tiravano su in piedi e mi facevano camminare. Mentre ero a riposo il dolore sembrava tollerabile, ma un movimento involontario come uno starnuto o un singhiozzo produceva un’esplosione, una sorta di orgasmo negativo di dolore, nonostante fossi attaccato, come tutti i pazienti dopo un’embolizzazione, a una flebo che mi imbottiva di sedativi a flusso continuo. Questa massiccia infusione di sedativi ha bloccato qualsiasi attività intestinale per quasi una settimana, e tutto quello che mangiavo (non avevo appetito, ma dovevo «assumere nutrimento», come dicevano gli infermieri) veniva trattenuto dentro. Un altro problema — non insolito dopo l’embolizzazione di una porzione ampia del fegato — è stata la produzione di vasopressina, un ormone antidiuretico che ha provocato un enorme accumulo di fluidi nel mio corpo. I piedi mi si sono gonfiati a tal punto che non riuscivo più a riconoscerli come piedi, e ho sviluppato uno spesso strato di edema intorno al torso. Questa «iperidratazione » ha provocato un abbassamento dei livelli di sodio nel sangue, che probabilmente ha contribuito ai miei deliri. Con tutto questo, e una serie di altri sintomi (la regolazione della temperatura era instabile: un minuto provavo caldo e il minuto successivo freddo), mi sentivo da schifo. Avevo «una sensazione generale di disordine» elevata quasi all’infinito. Se d’ora in poi dovessi sentirmi così, continuavo a pensare, morirò presto.
Sono rimasto in ospedale sei giorni dopo l’embolizzazione, poi sono tornato a casa. Anche se mi sentivo ancora male come mai in vita mia, ogni giorno che passava mi sentivo un po’ meglio, impercettibilmente meglio (e tutti mi dicevano, come si dice di solito alle persone malate, che avevo un aspetto «fantastico»). Avevo ancora attacchi improvvisi e travolgenti di sonno, ma mi costringevo a lavorare, correggendo le bozze della mia autobiografia (anche se a volte cadevo addormentato a metà frase, con la testa che piombava giù sui fogli e la penna ancora stretta fra le mani). Questi giorni postembolizzazione sarebbero stati molto difficili da sopportare se non avessi avuto questa mansione da svolgere (che era anche un piacere).
Il decimo giorno c’è stata una svolta: la mattina mi sentivo da schifo, come al solito, ma il pomeriggio ero una persona completamente diversa. È stato bellissimo, e del tutto inaspettato, senza nessun segnale premonitore che stesse per avvenire questa trasformazione. Ho recuperato l’appetito, il mio intestino ha ricominciato a funzionare e il 28 febbraio e il pri- mo marzo ho avuto una meravigliosa diuresi, perdendo quasi sei chili nel giro di due giorni. Improvvisamente mi sono ritrovato pieno di energia fisica e creativa, e di un’euforia che rasentava quasi l’ipomania. Camminavo su e giù per il corridoio del mio condominio, con pensieri esaltati che mi turbinavano freneticamente per la testa.
In che misura tutto questo sia stato merito di un ripristino dell’equilibrio del corpo, di una «risalita» del sistema nervoso autonomo dopo una profonda depressione del medesimo, di altri fattori psicologici o della pura e semplice gioia dello scrivere, non lo so. Ma il mio stato e la mia sensazione di trasformazione erano molto simili, sospetto, a quello che provò Nietzsche dopo un periodo di malattia, e che descrisse in toni estremamente lirici ne La gaia scienza: «La gratitudine sgorga di continuo, come se appunto fosse accaduto l’evento più inatteso, la gratitudine di un convalescente — giacché la convalescenza era questo evento tanto inatteso. Il gioire dell’energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta in un domani e un dopodomani, dell’improvviso sentimento e presentimento del futuro, di prossime avventure, di mari di nuovo aperti».
L’embolizzazione dell’arteria epatica ha distrutto l’ottanta per cento dei tumori nel mio fegato. Ora, tre settimane dopo, mi sto facendo embolizzare il resto delle metastasi. La mia speranza, dopo l’operazione, è di sentirmi veramente bene per tre o quattro mesi, in un modo che forse prima, con tutte quelle metastasi che si sviluppavano dentro di me prosciugando la mia energia per un anno o più, non sarebbe stato possibile. (Traduzione di Fabio Galimberti) © 1963-2-015 N-YREV, Inc.