Repubblica 24.4.15
L’Armeno errante
Un secolo fa il genocidio
In duecentomila furono salvati durante le marce della morte: vite che sono rimaste un segreto
Li chiamavano “i resti della spada”: i loro discendenti oggi sono un milione
di Bernardo Valli
ISTANBUL NON era più tanto giovane da ignorare la tragedia lontana nel tempo ma ancora sentita, benché occultata dal potere. E non era nemmeno tanto vecchio da avere un ricordo, sia pure indiretto, di quei fatti remoti che non riguardavano né lui né la sua famiglia. Era insomma indifferente a quel passato in bilico tra memoria e storia. E invece un giorno, quando era già un uomo maturo, l’avvocato coi capelli bianchi ha scoperto di essere figlio di uno scampato a quello che gli armeni, e tanti altri nel mondo, chiamano genocidio, e che i governanti turchi negano, ancora un secolo dopo. È commosso e non cerca di nasconderlo nel raccontarmi la sera in cui il padre gli confessò di essere stato salvato nel deserto siriano da un kurdo che lo tolse dalla colonna di deportati armeni in marcia verso la morte. Era un ragazzo e non vide più i genitori. Fu adottato dal suo salvatore, che lo convertì all’Islam e gli fece da padre per tutta la vita.
Soltanto a un’età avanzata, spiega l’avvocato coi capelli bianchi adesso davanti a me in un ristorante di piazza Taksim, ha saputo di essere figlio di un armeno cristiano e quindi di essere lui stesso armeno. Gli era stato nascosto per non complicargli l’esistenza in una società in cui i convertiti per forza o per convenienza suscitavano diffidenza. Tanto più se all’origine erano armeni e dunque cristiani. Padre a sua volta di tre figli turbati dalla recente scoperta delle radici familiari, il mio interlocutore riflette se recuperare l’identità scomparsa nel deserto siriano. La tentazione è forte.
Gli squarci democratici apertisi in Turchia rendono sempre più difficile applicare l’ideologia dell’amnesia per occultare i crimini di Stato. Del genocidio si scrive e si discute con maggior libertà. La società conosce di più i fatti, ma soltanto un’esigua frazione è disposta ad assumerne le responsabilità. Per certi aspetti la semantica diventa politica: non si considera appropriato ma offensivo, insultante, antipatriottico, il termine “genocidio”, per il suo significato anche storico e scientifico. Ed invece si accettano o si tollerano altre espressioni, come deportazione o massacro, per indicare gli stessi accadimenti. Bisogna evitare che figurino accanto all’olocausto degli ebrei o alle stragi di Stalin.
In occasione del centenario (24 aprile 1915-2015) il primo ministro Ahmet Davutoglu, come prima di lui il presidente Recep Tayyip Erdogan, ha riconosciuto la sofferenza del popolo armeno, e si è detto partecipe al suo dolore, ma ha rifiutato la responsabilità attribuita ai governanti di allora. Vale a dire allo Stato ottomano dei “Giovani Turchi”. Ha respinto l’idea di un crimine di Stato, con il suo milione e mezzo di morti (ottocento — novecentomila mila dicono altre fonti), da inserire nella storia nazionale. Si deve avere pietà per le vittime, ma non si deve imputare agli assassini la premeditazione. La strage è stata una conseguenza della Grande guerra allora in corso. Gli armeni erano accusati di appoggiare i russi nemici dei turchi. In realtà le dimensioni della strage, anche se non la si definisce genocidio, dà valore alla tesi secondo la quale la spinta nazionalista verso la “turchizzazione“ ha condotto al progetto di eliminare i gruppi etnici estranei a un’ideale identità nazionale. L’islamizzazione è stata usata contro gli armeni cristiani più per ragioni identitarie, nazionaliste, che religiose. È vero che c’erano gruppi di armeni armati favorevoli ai russi. Ma erano una trascurabile minoranza che è servita e serve come pretesto ai negazionisti.
Nelle stesse ore in cui gli armeni dispersi nel mondo, o raccolti nella Repubblica armena, ricorderanno il genocidio, il governo di Ankara celebrerà un altro avvenimento quasi simultaneo: il centenario della battaglia di Gallipoli, vittoria turca del 1915. Un successo militare che non evitò la sconfitta ottomana di tre anni dopo. La cerimonia di oggi, benché prevista dal calendario nazionale, assume l’inevitabile significato di una contrapposizione alle manifestazioni armene. Nelle stesse ore, mentre a Gallipoli suoneranno le fanfare, le associazioni armene si riuniranno infatti qui a Istanbul, in piazza Taksim. L’ideologia dell’amnesia stenta a sopravvivere in una società che vuole essere democratica, come l’Europa cui aspira.
In occasione del centenario il passato con le sue verità contestate si è abbattuto su questa città, meravigliosa vetrina di un paese che nel nuovo secolo si è modernizzato come pochi altri, ma che è ancora arroccato in una storia nazionale in cui vede la propria identità secondo schemi di un altro secolo. Come un forte temporale strappa le foglie dagli alberi e le disperde sul Bosforo, cosi la memoria ha strap- pato dall’oblio e fatto rispuntare un po’ ovunque nel paese quelle che un coraggioso giornalista di origine armena, Hrant Dink, prima di essere assassinato da un fanatico nazionalista, chiamava “anime erranti”. Il mio interlocutore, l’avvocato coi capelli bianchi, è una di quelle anime. È un cittadino turco, con un’impronta ufficiale kurda, e un’anima armena. Mi indica piazza Taksim, ai piedi dell’alto edificio in cui ci troviamo, e mi dice: «Vede? Lì c’era un nostro cimitero ». Al posto dei grattacieli, dei grandi alberghi, dei ristoranti, dell’asfalto che ammanta uno degli spazi più frequentati della metropoli, c’era un camposanto cristiano. Lo afferma con forza. Con certezza. Aggiunge che forse vi erano sepolti i suoi bisnonni armeni. Antenati ora nascosti sotto la sua famiglia adottiva musulmana, come le tombe del vecchio cimitero lo sono sotto le costruzioni di piazza Taksim.
Mi elenca poi gli edifici, e tra questi un palazzo diventato presidenziale, le numerose chiese, e i quartieri un tempo appartenenti alla sua gente, di cui si sono appropriati coloro che decisero il genocidio o ne approfittarono. «Fu anche una rapina», aggiunge. «È anche per questa ragione che si nega il genocidio. Riconoscendolo si solleverebbe il problema del risarcimento». I beni degli armeni contribuirono a irrobustire la nuova borghesia turca. Nel discorso prevale ormai la passione. Una passione senza rancore. «Questa è la mia società e non voglio riparazioni, desidero soltanto che condivida la mia memoria». La magica Istanbul mi appare una metropoli di fantasmi. Gli armeni escono lentamente dall’ombra. E in qualche modo sono la Storia che presenta il conto.
L’esistenza delle “anime erranti” è rimasta a lungo un segreto, sussurrato tra famiglie amiche o unite dalla stessa situazione, ma di rado rivelato in pubblico. Molti armeni sono sopravvissuti allo sterminio grazie a un amico musulmano, oppure a un miliziano curdo attivo nel partecipare al massacro ma con il desiderio di avere una moglie o un figlio, oppure a un funzionario impietosito. Circa duecentomila donne, uomini, bambini sono stati salvati durante la marcia della morte nel deserto siriano o nei villaggi dell’Anatolia in cui era in corso il massacro. I discendenti sarebbero adesso più di un milione. Secondo alcune valutazioni due milioni e mezzo, dispersi in famiglie curde o turche, convertiti all’Islam, a volte ignari delle proprie vere origini. È stato scritto che era un’orfana armena anche Sabiah Gokcen, figlia adottiva di Atatürk, il fondatore della Repubblica, e prima donna pilota dell’aviazione militare, di vero nome Hatun Seblyician.
I turchi li chiamavano “i resti della spada”. Gli scampati. Le donne erano più numerose. Si sono fatte musulmane, non avevano scelta, si sono sposate, hanno fatto figli, si sono immerse nelle famiglie turche o kurde, rassegnate o conquistate dai nuovi affetti. La loro storia è rimasta confidenziale, o addirittura segreta, ma adesso i nipoti vogliono sapere. L’avvento della democrazia e i nuovi incontrollabili mezzi di informazione hanno aperto e alimentano un dibattito un tempo impensabile. Un avvocato molto noto e militante dei diritti dell’uomo, Fethiye Cetin, è l’autrice di un libro in cui racconta la storia di sua nonna Seher. Era una donna forte, amata da tutta la famiglia, e un giorno, quando Fethiye aveva venticinque anni, le confessò che in realtà si chiamava Heranus ed era armena. Un gendarme, durante il massacro, l’aveva strappata a sua madre e a una morte certa, e l’aveva adottata. E si era rivelato un ottimo padre.
La rivelazione ha sconvolto la giovane avvocatessa che ha aspettato un quarto di secolo prima di scrivere la storia. Pubblicato nel 2004 Il libro di mia nonna è diventato un best seller che ha spinto molti turchi a sospettare di vivere in famiglie con identici segreti. La scoperta degli armeni nascosti, delle “anime erranti”, imbarazza lo Stato turco ma anche i membri delle associazioni armene, all’estero o in Turchia, i quali non sanno se hanno parenti musulmani in qualche angolo del paese o del mondo. Più di 60mila “anime erranti” sono state individuate nella sola Istanbul, ma sono molto di più quelle ancora “nascoste” perché non osano rivelarsi o sono inconsapevoli, non avendo scoperto le loro origini.