venerdì 24 aprile 2015

Repubblica 24.4.15
Hillary Clinton
Il matriarcato al potere
Non è né l’economia né la classe media che decide il successo di un’elezione ma la capacità di ottenere dall’elettore l’adesione simbolica al candidato
di Christian Salmon


LA CANDIDATURA di Hillary Clinton alle presidenziali del 2016 era scontata, ma ci si chiedeva quale forma avrebbe assunto la sua dichiarazione di intenti. Nel 2008 si era lanciata nella campagna con un semplice tweet: « I’m in and I’m in to win », sono qui e sono qui per vincere. Questa volta ha aperto le ostilità con un breve video sul sito della sua campagna, subito rilanciato dai social network.
In poco più di due minuti (dove lei compare solo al novantesimo secondo), Hillary dà la parola ad americani di classe media: una giovane madre di famiglia, una giovane coppia nera che aspetta un bambino, due fratelli ispanici, una studentessa, una coppia di omosessuali appena convolata a nozze, senza dimenticare quegli operai bianchi che nel 2008 l’avevano massicciamente sostenuta.
Il messaggio è chiaro: la classe media, le disuguaglianze, l’ottimismo della volontà.
Ma il concetto di classe media, come dimostrato da numerosi studi, è una categoria acchiappatutto per alcuni, un mito per altri, ma in ogni caso una classificazione che andrebbe declinata e utilizzata al plurale. Fare della classe media, al singolare, l’arbitro delle elezioni è una distorsione linguistica: bisognerebbe prima sapere di quale classe media si parla. Lo stesso vale per le classificazioni demografiche dell’elettorato secondo l’origine etnica, il colore della pelle o un qualunque altro fattore identitario. Se il voto nero ha senza dubbio giocato un ruolo nell’elezione di Obama, bisogna ricordare anche che alle primarie democratiche del 2008 Barack Obama vinse contro Hillary Clinton nell’Iowa, uno Stato «bianco», e perse in California, uno Stato multirazziale. Non è né l’economia né la classe media che decide il vincitore un’elezione, ma il successo o il fallimento di una performance, cioè la capacità di ottenere dall’elettore un’identificazione simbolica con il candidato.
Nelle moderne campagne performative, i marker ideologici, culturali, razziali e perfino sessuali sono diventati intercambiabili. Si spostano a seconda delle performance di coloro che li scelgono. Ogni schieramento cerca di prendere in prestito da quello avverso elementi della sua mitologia: la destra si impadronisce del valore lavoro, del cambiamento; la sinistra vuole difendere la nazione, l’ordine, la sicurezza. Nel 2008, in America, abbiamo potuto constatare, fra i due candidati democratici, un certo rovesciamento dei «poli» sessuali, con la candidata che giostrava con i segni della virilità, per non dire del maschilismo — la perizia, la competenza, l’esperienza, la perseveranza, la razionalità — mentre il candidato produceva segnali associati maggiormente al polo «femminile»: il carisma fascinoso, la capacità di sedurre, i valori del dialogo e del compromesso e — come gli rimproverava Hillary — il lirismo delle campagne elettorali invece della prosa del buongoverno.
Dopo aver sparso dubbi sulla perizia del candidato Obama lo staff di Hillary Clinton pensò di lanciare una polemica sulla virilità di Obama: ha meno palle di Hillary, una donna — affermavano i suoi portavoce — che le palle ce le ha. Malgrado l’apparente sguaiatezza, la faccenda merita tutta la nostra attenzione. James Carville, il celebre stratega della campagna di Bill Clinton nel 1994, non ebbe timore di dichiarare a Newsweek: «Se lei gli regalasse una delle sue palle, ne avrebbero due per ciascuno!». L’attacco non era stravagante come sembrava. Nell’America di Bush, abituata alle posture marziali, l’elezione si giocava sull’«habitus» del candidato: guerriero o negoziatore? Sognatore o macho? «Chi è il meno macho dei due?», si chiedeva l’editorialista del New York Times Maureen Dowd. E sul Guardian Nicolaus Mill definiva le primarie democratiche «primarie di testosterone».
È noto che «sesso» e «genere» sono due cose diverse. «Femminilità» e «virilità», più che «caratteri biologici» propri del sesso, sono dei marker costruiti dalla società. Non è stato probabilmente sottolineato a sufficienza fino a che punto queste caratteristiche siano mobili, nella vita politica e nelle campagne elettorali. In un mondo in mutazione accelerata, la figura della madre rassicura, probabilmente perché incarna l’ultima forma di stabilità, di continuità. La figura di Hillary Clinton, come quella di Angela Merkel, sono esemplari di questa forma di resilienza. Alla Casa Bianca, Hillary dovette gestire gli sbarellamenti del marito presidente, subire l’umiliazione della donna tradita, scendere in campo personalmente ma finendo per cedere il passo all’affascinante Obama e andando a sbattere contro il famoso soffitto di vetro. Ha accettato di fare il segretario di Stato agli ordini del suo rivale vittorioso per proteggere l’America. Il suo ritorno in politica è una narrazione: la narrazione del ritorno a casa, agli anni fausti dell’era Clinton, quando l’America non era in guerra e non c’era terrorismo. Hillary ha invitato gli americani ad accompagnarla in questo «viaggio », perché questo ritorno alla Casa Bianca è anche un racconto di viaggio, un lungo viaggio che è costato molti sforzi e ha richiesto ingegnosità e perseveranza. È la sorprendente virtù della perseveranza, chiamata a diventare un concetto chiave di tutte le campagne politiche, di fronte all’evaporare della potenza dell’agire politico dopo la crisi del 2008 e nel contesto generale della globalizzazione neoliberista. La Nazione fa difetto. E l’immagine del potere mascolino ha il piombo nelle ali! Che cosa resta di Bush, Berlusconi, Blair, Sarkozy, senza dimenticare Dominique Strauss-Kahn? Le figure del divieto e della trasgressione si sono scambiate di posto. Gli uomini del potere, i padri (della nazione), non si sognano più di occupare il posto della legge e preferiscono ormai quello della trasgressione. Spetta alle donne salvare la traballante istanza della legge. Martine Aubry nel 2012 denunciava la debolezza «strutturale» di François Hollande (« Quand c’est flou, c’est qu’il y a un loup », quando si è vaghi vuol dire che c’è qualcosa che non va, diceva la Aubry citando la nonna), ma non è riuscita nel compito storico che aveva davanti, diventare una Merkel di sinistra, perché ha rifiutato di occupare il posto della legge (suo padre Jacques Delors, bisogna dirlo, non è venuto meno alle sue promesse!). Nel recente conflitto fra Marine Le Pen e il padre, lo schema è ancora più caricaturale: è la figlia che fustiga il padre.
Il padre della Nazione viene a mancare, tocca alle donne darsi da fare. Angela Merkel, Christine Lagarde, Hillary Clinton: tre grandi figure del potere femminile, la triade post-crisi del 2008! Angela Merkel ha raccolto il potere dalle mani di un Helmut Kohl ormai sfiancato, indebolito dagli scandali. Christine Lagarde ha ridato lustro al Fmi, infangato dalle accuse di stupro a carico di Strauss-Kahn. Hillary Clinton raccoglie il testimone di quel farfallone di suo marito e punta a prendere il posto del prudente Obama! Potrebbe essere il preannuncio di un ritorno in mani matriarcali del potere sfuggito di mano agli uomini, che non controllano più niente in un mondo troppo complicato. C’è del marcio nel regno del potere maschile!
(Traduzione di Fabio Galimberti)