Repubblica 24.4.15
Da Verri ad Amnesty la lotta al cuore antico della tortura moderna
di Adriano Prosperi
LA PAROLA “tortura” è antica, la pratica anche. E vastissima è stata nel passato la letteratura giuridica per definirne i limiti, indicare i rischi e moltiplicare le cautele: basta sfogliare il classico, insuperato libro di Piero Fiorelli sulla tortura giudiziaria nel diritto comune o le ricerche di Mario Sbriccoli per averne un’idea. Ma tra il senso antico della parola e la pratica si è aperto un ampio e per lo più inesplorato territorio: quello dell’arbitrio del potere, in antico mediato dalla funzione del giudice ma in seguito, fin dall’età dell’assolutismo, sempre più affidato alla polizia, il “braccio violento della legge”, ritraendosi nell’ombra la funzione del giurista e scomparendo la sacralità del giuramento (parole e atti che fanno parte del patrimonio comune indoeuropeo, come ha spiegato Emile Benveniste). Tanto più vasto e oscuro si è fatto intanto quel territorio quanto più la luce della definizione giuridica ha abbandonato il campo, un tempo oggetto di una attentissima normativa e di elaborazioni sottili da parte dei penalisti.
Così si può fare storia della tortura al solo patto di decifrare il mutamento nascosto dietro l’apparente immobilità del linguaggio. La realtà cambia, il lavoro del potere si aggiorna. «Oggi — si legge in un rapporto di Amnesty International — non vi è un singolo paese al mondo che abbia leggi che autorizzano l’uso della tortura». Ma ecco che, sparita quella legale, è esplosa la fioritura di quella illegale. Ancora dal rapporto di Amnesty: «Si può affermare che il 50% del nostro globo stia avvalendosi di questa barbarie più o meno assiduamente ». Eppure all’origine la tortura non fu una barbarie, al contrario. Fu inventata per consentire al giudice di raggiungere la “regina delle prove”, la confessione del colpevole — un vero progresso grazie al nuovo processo inquisitorio che tra l’XI e il XIII secolo sottrasse ai privati l’obbligo di farsi giustizia e inventò la figura del giudice come “inquisitore” cioè ricercatore della verità. Il principio fondamentale che portò a quel mutamento è tuttora valido: l’interesse collettivo a che i delitti non restassero impuniti. Ne andava di mezzo il vincolo tra l’individuo e la città, così come quello tra il cristiano e la Chiesa (che infatti si impadronì del processo inquisitorio e lo legò per sempre alle forme della sua lotta contro il dissenso, l’”eresia”).
Il ricorso alla tortura, anche se ritenuto necessario e insostituibile, fu arginato da critiche continue, a partire da quella di Sant’Agostino: chi viene torturato perché sospetto, riceve una pena certa per un delitto incerto. C’era l’evidente rischio di lasciare andare assolto il criminale robusto e di punire chi cedeva per il dolore o anche solo per il terrore: la strage di donne nei processi per stregoneria nacque dal ricorso alla tortura, come affermò il gesuita Friedrich von Spee nella sua celebre Cautio criminalis.
Altri tempi. Oggi nella cultura giuridica americana, ai margini di Abu Ghraib e di Guantanamo, è cresciuta la tendenza a una legittimazione della tortura come lotta contro il terrorismo. Sullo scenario ipotetico del caso estremo della bomba a tempo piazzata dal terrorista (“ticking bomb”) è venuto meno non solo intellettualmente ma nella pratica il principio fondamentale che non debba esserci simmetria tra il potere criminale e il potere dello Stato. Questo ci riguarda. L’Italia tutta è costretta a ricordarlo dai fatti del G 8 di Genova, l’avvio del millennio con una infamia non punita, degenerata in malattia mortale della politica e della giustizia italiana. Ed è un singolare esempio del cuore antico del futuro il fatto che sia la peste del terrorismo la malattia moderna che fa rinascere ed esplodere la tortura, così come sul caso di un povero barbiere milanese accusato di spargere la peste nacque il ripudio giuridico e morale della tortura argomentato in forme diverse da Pietro Verri e da Alessandro Manzoni, luci remote nel buio di un’Italia regredita.
All’origine non fu una barbarie forniva al giudice “la regina delle prove”