Repubblica 23.4.15
Adesso il divorzio è finalmente breve
di Michela Marzano
FINALMENTE ci siamo. Anche in Italia, per divorziare, i tempi si accorciano: in caso di separazione consensuale, l’attesa tra la separazione e il divorzio sarà di sei mesi; in caso di separazione giudiziale, invece, di mesi ce ne vorranno dodici.
E ANCHE se ci sono voluti più di dieci anni per arrivare all’approvazione di queste norme, ieri, alla Camera dei deputati, la riforma della celebre legge 898 del 1970 è stata approvata quasi all’unanimità. Certo, le cose si sarebbero potute fare ancora meglio, adeguando ad esempio la legislazione italiana a quella di tanti altri Paesi europei in cui, per chiedere il divorzio, non è necessario passare per la fase della separazione. Difficile, però, fare molto di più nel contesto ideologico e culturale che, purtroppo, caratterizza ancora il nostro Paese. E che spinge molti a barricarsi dietro a numerosi pregiudizi e tanta arretratezza. Come non pensare a tutti coloro che, commentando l’approvazione della legge, non hanno potuto evitare di parlare di una società ormai priva di valori in cui tutto “si fa” e “si disfa” come se fosse un gioco? Come non pensare a chi, intervenendo ieri in Aula, non ha potuto fare a meno di insinuare che ormai nessuno più crede nella famiglia e nella stabilità del matrimonio? Come se la stabilità fosse di per sé un valore, e non rischiasse talvolta di bloccare ognuno di noi all’interno di un immobilismo mortifero.
Ma lasciamo pure perdere il rapporto tra l’andamento talvolta contraddittorio del desiderio e la paralisi del cambiamento impossibile. Perché l’importanza dell’approvazione del divorzio breve, in fondo, è altrove. E non c’entra affatto né con la fine dei valori né con il trionfo di una società in cui tutto, compreso l’amore, sarebbe ormai liquido. La riforma del divorzio, di fatto, non è né rivoluzionaria, né immorale. È solo un modo per adeguare la legislazione italiana alla realtà, prendendo atto non solo del fatto che la vita è molto più complessa, frastagliata e balbuziente di qualunque teoria — non è d’altronde uno dei più grandi psicanalisti, Jacques Lacan, che diceva che la verità di un essere umano emerge proprio quando si balbetta e la parola si inceppa? — ma anche del fatto che non è certo per legge che si può imporre a una relazione di durare. Le storie d’amore, talvolta anche le più belle, possono finire. Anzi, spesso finiscono. E quando finiscono — cosa quasi sempre triste, dolorosa, talvolta anche difficile da accettare e da metabolizzare — non è certo il passare del tempo che permette a due persone che non vogliono più condividere la propria vita di restare insieme. Il tempo, soprattutto quando si parla di affetti e di sentimenti, non è mai univoco. E se alcune volte permette di ricucire le ferite, altre volte non fa altro che esasperare ancora di più le tensioni e i conflitti esistenti.
In uno dei libri più belli scritti da Soren Kierkegaard, Aut Aut , il filosofo danese spiega come i traditori si trovino ovunque, talvolta anche all’interno del matrimonio. Bisogna stare attenti, però, a non sbagliare il bersaglio, dice il filosofo. Visto che i veri traditori non sono quelli che decidono, al momento opportuno, di mettere fine al proprio matrimonio, ma “quegli sposi miserabili che, lamentandosi dell’amore ormai da tempo svanito, restano come stolti nel proprio recinto coniugale”. In fondo, chi critica il divorzio breve, parlando di demolizione o di smantellamento della famiglia, mostra di non capire il significato profondo di queste parole, illudendosi che le apparenze possano rimpiazzare l’autenticità e la verità delle relazioni. L’amore non è fatto di gesti che si ripetono anche quando privi di significato e ormai svuotati, ma di riconoscimento e di accettazione delle reciproche differenze; è quel miracolo che si verifica ogni qualvolta in cui, stando accanto a un’altra persona, ci rendiamo conto che riusciamo prima di tutto a stare accanto a noi stessi; è quel sentimento che resiste agli strappi ma che, nella vita reale, talvolta ci abbandona. Oppure continua anche in assenza dell’altro. Perché nella vita le rotture esistono, e alcune volte si può solo imparare a conviverci. Altre volte invece accade semplicemente di sbagliarsi, e allora è giusto avere la possibilità di ricominciare tutto da capo. Senza che qualcuno si arroghi il diritto di sapere, al posto nostro, che cosa si debba o meno fare.