domenica 19 aprile 2015

Repubblica 19.4.15
Col suo viaggio il nostro premier porta a casa due corone
Renzi ha dato truppe in Afghanistan e un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro
Da Obama ha avuto ornamenti di cartone
di Eugenio Scalfari

DEBBO dire che in certe cose, in certe situazioni e in certi incontri Matteo Renzi è di fantastica bravura. Anche i suoi avversari politici dovrebbero riconoscerlo e credo che lo sappiano ed auguro loro che ne tengano conto. L’ha dimostrato quando incontrò per la prima volta Angela Merkel e poi Putin; infine l’altro ieri quando ha passato l’intera mattinata e poi il pranzo e ancora il primo pomeriggio con Barack Obama alla Casa Bianca. Gli ha perfino portato in regalo una cassa di vino d’annata. Toscano naturalmente. Immagino fosse un Brunello di Montalcino.
Angela Merkel, Putin, Obama. Su di loro ha fatto colpo e l’hanno trattato come un grande statista e l’Italia da lui guidata come un grande Paese. Che cosa ha ottenuto in cambio? Quasi nulla o nulla del tutto, ma ha avuto in cambio qualche cosa che a lui più di tutto importava: un riconoscimento da rivendicare in patria. E vi pare poco?
Del resto Silvio Berlusconi ai suoi tempi fece altrettanto. Anche lui all’inizio sedusse la Merkel e fece con lei perfino un passo di danza. Di Putin diventò addirittura socio oltreché amico intimissimo. Fecero affari insieme sul gas russo, fecero insieme il bunga bunga in una dacia assai accogliente, passarono insieme i rispettivi compleanni e quando, dopo la sentenza della Cassazione, volle essere autorevolmente confortato, Silvio volò a Mosca dove il confortatore lo accolse al Cremlino. Ma parliamo anche della sua amicizia per George W. Bush: fece entrare l’Italia in guerra contro l’Iraq insieme a lui, andò più volte a trovarlo a Washington e nel luglio del 2003 a Crawford in Texas nella residenza di campagna del presidente.
CHE cosa ottenne l’Italia da questo vasto ventaglio di amicizie di Silvio? Assolutamente nulla, ma lui se ne infiocchettò l’abito da premier sontuosamente. Purtroppo (per lui) dopo le sue sfortunate vicende giudiziarie la Merkel lo scaricò del tutto e gli altri governanti europei fecero altrettanto, al punto che evitarono di farsi fotografare in sua compagnia nelle riunioni internazionali. Avevano capito prima di noi italiani che la sua strada era finita.
Da questo punto di vista Matteo è molto più bravo di lui e col bunga bunga non ha nulla da spartire. Non possiede aziende private, non ha conflitti di interesse. Silvio sperava che fosse il suo erede al potere ma ha fatto un errore: non ha accettato la candidatura di Mattarella. Comunque Renzi non lo abbandonerà, farà in modo che abbia onorata sepoltura (politica ovviamente) e prenderà da lui parecchi voti di ex forzisti in cerca d’autore.
E questo è quanto. Ma ora vediamo che cosa veramente è accaduto a Washington a parte i complimenti reciproci, le pacche sulle spalle e il Brunello di Montalcino.
***
Obama l’ha complimentato per le riforme che Renzi ha compiuto. Non ha detto quali. Si è complimentato anche per la sua battaglia per la crescita economica in Europa, che però non è affatto venuta. In aggiunta a questi complimenti Obama si è però lamentato perché l’euro è troppo debole e rende difficili le esportazioni americane su tutta l’area europea. Renzi ha incassato il rimprovero rispondendo che vedrà quel che potrà fare. In che senso? Veramente il nostro premier non vorrebbe consolidare la rivalutazione del dollaro di fronte alla moneta europea? L’autore di quel mutamento del cambio è Mario Draghi che sta lavorando per il bene dell’Europa e quindi dell’Italia.
Poi il discorso è passato alla Russia. Poche settimane fa Renzi aveva promesso a Putin un intervento per far togliere le sanzioni economiche contro la Russia. Obama ha invece detto a Renzi che sarebbe un errore gravissimo togliere quelle sanzioni che semmai dovrebbero essere aumentate. Piglia e porta a casa.
A pranzo il discorso si è spostato sulla Libia. Obama tra un bicchiere di Brunello e l’altro ha detto che in Libia gli Usa non intendono intervenire e tantomeno fornire armi ed aerei al governo libico (che di fatto non esiste). Ha detto che bisogna pacificare le tribù e che questo compito spetta senz’altro all’Italia. Quindi l’ha incoronato negoziatore principale della pace in Libia. Naturalmente incoronare qualcuno senza avere la corona da calcargli sulla testa non costa nulla ed è quello che ha fatto Obama. La corona in questo caso ce l’ha l’Onu e sembra difficile che l’Onu la metta in testa ad un italiano che per di più rappresenta un Paese che ebbe la Libia come colonia dal 1911 al 1942, dopo la sconfitta di El Alamein.
Obama lo ha simbolicamente incoronato come leader dell’Europa (altra corona che Obama non possiede), ma a scanso di equivoci ha ricordato che gli Usa hanno un rapporto con la Germania che non può e non deve essere indebolito.
Infine Obama ha preso atto con piacere che le truppe italiane dislocate in Afghanistan resteranno in quel Paese ancora un paio di anni mentre quelle americane stanno già rientrando in patria.
Insomma: chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Renzi ha dato truppe in Afghanistan e possibilmente un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro. Ha dato anche il suo appoggio al trattato commerciale Usa-Ue attualmente in discussione. In contropartita ha avuto due corone di cartone. Su quelle due Renzi torna a Roma felice e contento. Giornali e televisioni hanno già cominciato a suonare a festa e continueranno. Mi viene in mente la canzone “Madonne fiorentine” quando dice che «Madonna Bice non nega baci/ baciar le piace, che male fa?». Infatti, che male fa mettersi in testa due corone di cartone e far credere che sono d’oro massiccio e ingioiellato. *** Tornato in Italia Matteo (che Giuliano Ferrara non a caso chiama “Royal baby”) comincerà col respingere e far respingere all’unanimità dalla direzione del Pd le dimissioni di Speranza da capogruppo dei deputati del partito. Speranza accetterà quel voto o insisterà nelle dimissioni? Per ora l’interessato ha detto che insisterà ma ha anche spiegato il perché: vuole trattare un compromesso accettabile per tutte e due le parti in causa. E qual è il compromesso? Un cambiamento della riforma del Senato in seconda lettura in Parlamento: elezione diretta dei senatori e voto compatto dei dissidenti sulla legge elettorale.
È possibile questo do ut des? Sembrerebbe di no. Secondo la legge vigente le materie già approvate dalle Camere nella prima lettura della legge costituzionale non possono essere più emendate in seconda lettura. Le cose stanno esattamente così, salvo che c’è un impensabile calembour cui appigliarsi: nella prima lettura una Camera ha votato che «i senatori saranno votati nei Consigli regionali» e l’altra Camera ha votato che «i senatori saranno votati dai Consigli regionali». Il significato è identico ma la forma è diversa.
È un appiglio valido che consente un mutamento sostanziale? La risposta sulla base dei regolamenti parlamentari spetta al presidente del Senato. Grasso non è persona che gioca alle quattro carte; in materia di legge e di procedure ha speso tutta la sua vita e perciò la sua risposta, ove fosse necessaria, sarà motivata in modo sicuramente accettabile, quale che sia.
Ma se fosse negativa? Allora mancherebbe la contropartita al voto unanime sulla legge elettorale. E allora Renzi che farà? Metterà la fiducia su quella legge? È avvenuto una sola volta, la mise De Gasperi sulla cosiddetta legge truffa del 1953. Ma in quel caso la sostanza era completamente diversa: il premio scattava soltanto nel caso che ci fosse in Parlamento una maggioranza assoluta del 50 per cento più uno. Solo allora scattava il premio per accrescere la governabilità. Comunque quella legge fu battuta nonostante la fiducia. Figurarsi qui e ora.
Perciò il problema resta apertissimo su come si comporteranno i dissidenti del Pd. Per loro il tema è se osservare la disciplina di partito o non accettarla se sono convinti che quella legge è un passo assai pericoloso verso un governo autoritario. Sta a loro rispondere e decidere come comportarsi.
***
Una parola sulle decisioni di Marchionne di associare i lavoratori della Fiat agli utili dell’azienda; qualora quegli utili ci siano spetterà a lui di stabilire l’entità del premio e la sua ripartizione tra i dipendenti.
Tutti i sindacati hanno plaudito salvo la Fiom-Cgil che parla di esproprio dei poteri sindacali. Sembra un’opposizione più corporativa che sindacale. In parte lo è, ma in parte no. Infatti in quasi tutte le aziende esiste un “premio di rendimento” che le imprese discutono con le rappresentanze sindacali, le quali trattano sull’entità del premio (sempre che un profitto ci sia stato), sulla sua ripartizione ed anche su problemi connessi alle condizioni di lavoro nel comune interesse dell’impresa e dei lavoratori.
Dunque non è l’imprenditore che decide da solo, ma l’interlocutore sindacale è allo stesso tavolo e si arriva ad una decisione comune.
A me sembra che questo metodo sia buono e che comunque il profitto sia di comune utilità; senza di esso la discussione si dovrebbe spostare sui sacrifici da compiere, sia dall’una che dall’altra parte e questo è il massimo di un capitalismo democratico e di un sindacalismo riformista.
Post scriptum. La settimana che si apre domani si concluderà sabato prossimo con la ricorrenza del 25 aprile, festa della Resistenza contro il nazifascismo.
Questa festa fa parte della storia d’Italia, dal Risorgimento in poi. Quel movimento ebbe molte ombre e contemporaneamente molte luci. Le figure più rappresentative, molto diverse tra loro ma tutte votate alla fondazione dello Stato unitario e democratico, furono soprattutto tre: Mazzini, Cavour, Garibaldi.
La Resistenza fu una pagina di grande riscatto e anch’essa ebbe molte figure e apporti ideali e politici assai diversi: liberali, comunisti, monarchici, liberal-socialisti, socialisti. Ma il fine era comune e fu sancito dalla Costituzione che tuttora ci detta le regole di comuni principi di democrazia, libertà ed eguaglianza politica e sociale.
Per ciò concluderò con le parole con le quali il presidente Mattarella ha concluso due mesi fa il suo discorso di insediamento al Quirinale: «Viva la Repubblica, viva l’Italia».