giovedì 16 aprile 2015

Repubblica 16.4.15
La spesa per la scuola
di Alberto Bisin


AD OGNI tetto o soffitto di una scuola che crolla ci si chiede giustamente come fare ad agire al più presto sulle infrastrutture (a dire il vero non solo quelle scolastiche paiono un problema, come suggerisce la vicenda del ponte in Sicilia, ma analizziamo una questione per volta). Nello stesso tempo il governo Renzi pare intenzionato a procedere con l’annosa pratica di assunzione dei precari della scuola. È naturale chiedersi quindi se la spesa per l’istruzione in Italia sia sufficiente, in linea con quella di altri Paesi a simile livello di sviluppo, se sia concentrata sul personale invece che sul capitale tecnologico e immobiliare, se sia generalmente efficiente.
I dati raccolti dall’Ocse (i più recenti sono riferiti al 2011, Education at a Glance 2014) contengono molte risposte. Provo ad elencare quelle che a mio giudizio sono le più importanti.
L’Italia spende relativamente poco per l’istruzione. La spesa per l’istruzione pubblica conta per circa il 4,3% del Pil, meno di Francia (5,7%), Germania (5%) e della media dei Paesi Ocse (5,6%). Anche in termini di spesa annuale per studente a tempo pieno l’Italia, che spende circa 6.500 dollari, è sostanzialmente sotto al resto dei Paesi sviluppati. La Francia e la Germania ad esempio spendono più di 10 mila dollari a studente.
L’istruzione contribuisce relativamente poco alla spesa pubblica in Italia. La spesa per istruzione in percentuale della spesa pubblica totale è in Italia la più bassa in assoluto rispetto a tutti i Paesi Ocse: 8,6% contro il 10,2 e l’11%, rispettivamente, di Francia e Germania e il 12,9% in media. Ovviamente sono altri i cespiti di spesa che pesano in modo squilibrato sul bilancio pubblico.
La spesa pubblica per istruzione è stata contenuta in Italia dal 2000 ad oggi. Essa è infatti passata dal 4,5 al 4,3% del Pil. Così è stato in altri Paesi con problemi di bilancio pubblico, come ad esempio la Francia; mentre la spesa pubblica per istruzione in percentuale del Pil è cresciuta in media nei Paesi Ocse nello stesso periodo, dal 5,2 al 5,6%.
La spesa pubblica per l’istruzione in Italia è relativamente concentrata sulla scuola dell’obbligo. La scuola dell’obbligo (dalle elementari alle secondarie) conta in termini di spesa per due volte e mezzo la scuola terziaria e l’asilo messi assieme (1,8 volte circa in Francia e nella media Ocse).
La spesa per l’istruzione è molto più concentrata sulla spesa per insegnanti e altro personale rispetto agli altri Paesi sviluppati. La spesa corrente per l’istruzione, che comprende generalmente per più dell’80% spese per insegnanti e altro personale, è più del 96% del totale in Italia (il dato riguarda tutto il sistema scolastico ad esclusione della scuola terziaria, cioè di università e formazione professionale post- secondaria). Meno del 4% della spesa pubblica riguarda il capitale (tecnologie e infrastrutture, ad esempio). Questa distribuzione è seriamente sbilanciata a favore della spesa per il personale rispetto ai Paesi Ocse, dove in media la spesa corrente è il 92% del totale (91% circa in Francia e 90% in Germania). Importante notare che la sproporzione rispetto alla spesa corrente che caratterizza la spesa pubblica per l’istruzione nel nostro Paese sostanzialmente sparisce nella scuola terziaria.
Concludiamo questa analisi dei dati sulla spesa pubblica per l’istruzione in Italia confermando alcuni dei più comuni pregiudizi e smentendone altri (assumo, a mio parere ragionevolmente, che sostanziali deviazioni rispetto alla media dei Paesi sviluppati, siano segnali di inefficienza). La scuola pubblica in Italia non drena risorse più di quanto dovrebbe, anzi. L’Italia spende poco e sempre meno per l’istruzione. Ma spende male, troppo poco per università e asilo e soprattutto troppo poco per sviluppare e mantenere il capitale immobiliare e per la tecnologia di accompagnamento, come computer etc. Come in altri settori della spesa pubblica, la giustizia viene immediatamente in mente, l’Italia concentra la spesa per istruzione (la maggior parte di essa, quella relativa alla scuola dell’obbligo) su insegnanti e altro personale.
Se si aggiunge il fatto che gli studenti italiani tendono ad avere risultati molto scarsi rispetto a quelli degli altri Paesi sviluppati, ad esempio nei test Pisa, credo sia difficile evitare di concludere che la scuola pubblica in Italia rappresenti un meccanismo per generare posti di lavoro (non necessariamente a salari elevati) piuttosto che per istruire studenti. In effetti non costa molto ma la distribuzione della spesa appare inefficiente e produce poco in termini di istruzione. A questo proposito non resta che sperare che il disegno di legge “Buona scuola”, che contiene anche misure interessanti e necessarie di riforma della scuola, non finisca in Parlamento per ridursi a poco altro che una manifestazione di vecchia scuola: assunzioni di personale prima di tutto, peraltro basate sulla discutibilissima scelta di regolarizzare precari e supplenti senza concorsi, favorendo ancora una volta l’occupazione rispetto alla qualità dell’istruzione.