Repubblica 15.4.15
Una trappola per il premier nella battaglia delle Ardenne
Lo scontro con la minoranza pd e la ricerca del plebiscito quotidiano sono una tentazione pericolosa
di Stefano Folli
GIUNTI a questo punto, l’ultima battaglia sulla legge elettorale, l’Italicum, assomiglia alla controffensiva delle Ardenne. Uno scontro in cui è in gioco l’onore dei combattenti più che le sorti della guerra. L’opinione prevalente è che la minoranza del Pd vuole offrire una prova di forza per ragioni di prestigio, ma difficilmente si spingerà fino ad affossare la riforma in aula, mettendo Renzi con le spalle al muro. Intendiamoci: se potesse, lo farebbe. Ma forse non è abbastanza coesa al suo interno. E non è abbastanza determinata.
Un conto è esprimere un voto contrario in un’assemblea interna di partito, molto più difficile è mantenere questa posizione in Parlamento: quando il voto in dissenso dalla linea ufficiale diventa l’anticamera della scissione. E ben pochi, forse nessuno o quasi, nel fronte anti-Renzi del Pd vuole la scissione. Per farla occorrono forti convincimenti e una base sociale di riferimento. Oltre che una chiara strategia. La minoranza di Bersani, Cuperlo, Fassina e altri senza dubbio ha i convincimenti, ma è dubbio che abbia una base solida nella società italiana. Quanto alla strategia, nessuno riesce a intravederla.
Questo spiega perché Renzi e i suoi collaboratori hanno rifiutato fino all’ultimo una trattativa sulla legge elettorale. Perché ritengono che la minoranza non abbia un futuro e non sia in grado di indicare una prospettiva. E, come se non bastasse, si tratta di un fronte frastagliato, incapace di costituire un vero e proprio partito nel partito. Semmai è un ombrello al di sotto del quale convivono tendenze e personaggi uniti solo dal risentimento verso il premier e il suo stile di governo. Ne deriva che prima del voto in aula molti potrebbero cambiare idea e trovare un accomodamento con il presidente del Consiglio. Le parole di Giorgio Napolitano a favore della riforma possono essere lette anche così: un buon argomento offerto a chi alza oggi la bandiera del «no», ma non è convinto di andare fino in fondo. E non vuole tornare indietro.
Questo non significa che l’offensiva delle Ardenne sia inutile. O ininfluente rispetto al futuro del centrosinistra. Il fronte anti-Renzi è in grado di infliggere comunque una ferita al suo avversario: una ferita rispetto alla quale il premier può anche fare spallucce, con quel tratto di arroganza che è tipico in lui, ma l’esperienza insegna che un partito lacerato è anche un partito azzoppato. Fino a oggi Renzi è stato attento a presentarsi come un uomo di centrosinistra. E per quanto egli possa disprezzare la cosiddetta «ditta» bersaniana, essa rappresenta un segmento importante della storia recente della sinistra. Mortificare la minoranza, umiliarla, è cosa ben diversa dal renderla marginale un passo alla volta, attraverso le politiche concrete e le idee modernizzanti.
Al di là del merito della riforma elettorale, suscettibile di critiche spesso più che giustificate, c’è il punto politico. Renzi rischia di ritrovarsi via via più solo, prigioniero di se stesso e sempre più bisognoso di un rapporto diretto con la massa degli elettori. È la radice del populismo, sia pure in formato tecnologico e multimediale.
La crescente umiliazione della minoranza, dileggiata a causa della sua testa rivolta al passato, può servire ad approvare in via definitiva l’Italicum. Ma non aiuta a gestire una stagione complessa, sullo sfondo di un’incertezza economica tutt’altro che superata. Per Renzi la ricerca del plebiscito quotidiano, fino a raggiungere lo «zenit» nel futuro referendum che dovrà ratificare la riforma costituzionale del Senato, può essere una tentazione irresistibile. Ma comporta dei rischi che potrebbero essere evitati con un po’ di buonsenso e una migliore capacità di ascolto.