Repubblica 15.4.15
Oggi il liberismo non deve più vedersela con la lotta di classe ma con i limiti dello sviluppo stesso.
Le angosce del nuovo capitalismo
di Donald Sassoon
ALLA progressiva integrazione del mondo, la cosiddetta globalizzazione, corrisponde il capitalismo di mercato, un sistema che sembra non aver più bisogno di essere difeso. In Occidente, nessuno sembra opporsi al suo fascino universale. Nelle economie emergenti il dibattito si concentra sul quale tipo di capitalismo dovrebbe prevalere. Il fondamentalismo islamico, il “grande nemico”, ha poco da dire sulle questioni economiche. In occidente siamo più ricchi che mai, ma c’è meno uguaglianza soprattutto negli ultimi decenni. Il vecchio sogno della sinistra ( égalité) è stato abbandonato. Tutti sembrano accettare che gli attuali ordinamenti economici della società siano gli unici possibili. Il capitalismo funziona. È vero, ci sono ancora molti che vivono nello squallore e nella miseria. Ma — in Occidente — essi sono una minoranza. Non minacciano il sistema.
La rivolta occasionale, l’esplosione di rabbia popolare, la violenza che monta irregolarmente è quasi un riconoscimento che il capitalismo non deve affrontare alcun serio problema politico. Una volta, si pensava che i “dannati della terra” si sarebbero rivoltati contro il sistema. In realtà essi sono frustrati dall’esserne fuori. Chi non fa parte del mondo incantato del capitalismo consumista bussa alla sua porta in un’ondata di migrazione senza precedenti. Oggi, la grande ricchezza accumulata dalle élite economiche provoca invidia e scandalo, ma i rimedi proposti (tassarli, controllarli, metterli alla berlina) non mettono in discussione la validità del capitalismo, solo uno dei suoi risultati meno appetibili.
Gli oppressi e i sfruttati sono lontani, in paesi lontani. In un capitolo nel Capitale, Karl Marx, grondante di sdegno, riporta la notizia della morte per esaurimento di Mary Anne Walkley, una sartina di vent’anni che lavorava, in media, 16 ore senza pausa. La sua morte fu riportata su tutta la stampa e anche quella conservatrice era indignata. Era il 1863, quando Mary Anne e i suoi compagni di sventura lavoravano a poca distanza dai consumatori dei loro prodotti, la distanza tra Soho e Mayfair. Centocinquant’anni dopo le Mary Anne di questo mondo esistono ancora, ma lontano dalla causa della loro miseria.
La democratizzazione dei consumi è ciò che ha sigillato la vittoria per il capitalismo. Alcune economie comuniste erano riuscite a industrializzarsi, ma nessuna di queste riuscì ad arrivare alla massima conquista del capitalismo moderno: la società dei consumi. Negli ultimi decenni del Diciannovesimo secolo, un trionfo così chiaro del capitalismo era stato previsto da pochi. E ciò provocava un’ansia notevole, perfino nella prospera Inghilterra; e non solo, come ci si potrebbe aspettare, tra lavoratori oppressi e i contadini minacciati dai cambiamenti, ma tra le stesse classi medie che avevano paura di tutto: della sedizione, dell’incertezza economica, degli immigrati ebrei e irlandesi, del colera e del vaiolo, e, soprattutto, dei poveri. Avevano ragione ad avere paura. La rivoluzione industriale che stava dilagando in tutta Europa portava a uno sconvolgimento senza precedenti nella struttura sociale.
Il dibattito tra le élite politiche dell’epoca si sviluppò in un contesto specifico: da un lato il riconoscimento che l’industrializzazione era inevitabile e desiderabile, e, dall’altro la paura che avrebbe potuto destabilizzare il sistema. Ogni élite aveva la sua interpretazione del capitalismo. Le élite liberali lo abbracciavano con entusiasmo, come un fine in se stesso. Avrebbe spazzato via i residui feudali, i privilegi nobiliari e clericali, liberato l’imprenditorialità, rafforzato la nazione e promosso il progresso e la scienza.
Le élite socialiste, come quelle liberali, accettavano l’inevitabilità del capitalismo, la sua forza progressista, ed elogiavano la distruzione sistematica della vita rurale, con le sue superstizioni e arcane credenze religiose. Per loro, tuttavia, questo era l’anticamera della società del futuro, senza classi e privilegi. I socialisti si battevano per le riforme sociali, per l’estensione della democrazia, per un limite alla giornata lavorativa. Ma più tali rivendicazioni venivano soddisfatte più il sistema diveniva tollerabile. Paradossalmente i socialisti, riformando il capitalismo, contribuirono alla sua stabilizzazione.
Questo spiega, almeno in parte, il motivo per il quale vi siano stati, fino a qualche decennio fa, così pochi partiti politici di massa veramente filo-capitalisti. Tra il 1880 e il 1980 abbiamo avuto, almeno in Europa, partiti socialisti e comunisti, partiti cristiano- sociali, partiti agrari, partiti di notabili, partiti populisti, partiti nazional-patriottici (i gollisti in Francia, i conservatori in Gran Bretagna), e poi i vari partiti fascisti e anti-democratici, ma non partiti liberali di massa che difendano a spada tratta il mercato senza “regulation”.
Verso la fine del Diciannovesimo secolo, i numerosi Stati che volevano raggiungere il paese all’avanguardia, e cioè la Gran Bretagna, non avevano altra scelta che rafforzare il loro Stato. Senza uno Stato potente, non ci poteva essere sviluppo. L’idea che questo doveva essere lascia- to agli imprenditori non era presa sul serio. I capitalisti hanno spesso dovuto essere inventati, nutriti e protetti. È passato più di un secolo e il capitalismo è cresciuto, è diventato globale, e ora vuole liberarsi dall’abbraccio dello Stato, quello Stato che li ha fatti.
Poiché il capitalismo ha forti tendenze anarchiche, addomesticarlo per salvarlo è essenziale. I capitalisti non controllano il capitalismo. Sono essi stessi (così pensavano sia Adam Smith che Karl Marx) prigionieri di un insieme di relazioni sociali in cui ognuno cerca di migliorare la propria posizione economica nell’ignoranza di quello che succederà agli altri o dopo. Certo le capacità imprenditoriali sono un fattore importante nella gara tra chi vince e chi perde. Ma le sorti della competizione sono anche dovute a cause esogene, quali la disponibilità delle materie prime, le decisioni prese da altri, e anche alla sorte. Oggi il capitalismo deve fare fronte a un nuovo problema: non più la lotta di classe, o le aspirazioni rivoluzionarie dei dannati della terra, mai limiti ecologici dello sviluppo. Paradossalmente l’aumento di democrazia è un ostacolo. Né sarebbe realistico aspettarsi che cinesi e indiani che mirano a godere di uno stile vita “occidentale” se ne tornino pacificamente al consumo spartano di ieri. Insomma può il capitalismo continuare la sua marcia trionfale e globale senza danneggiare il globo? Questa è la domanda più importante e che genera la stessa ansia che accompagnato da sempre il capitalismo.