mercoledì 15 aprile 2015

Corriere 15.4.15
I mali antichi della Russia
Custine descrisse la tirannia degli zar che nell’800 assomigliava già all’Urss
di Paolo Mieli


Fino al 13 maggio del 1843 il francese Astolphe Louis Léonor de Custine era stato uno scrittore tenuto in nessun conto (o quasi) dai suoi connazionali. Nato nel 1790, l’anno successivo alla presa della Bastiglia, aveva perso nei primi anni di vita sia il nonno che il padre, ghigliottinati dai rivoluzionari. Passati i trent’anni, si era messo a scrivere romanzi. Nonostante un qualche incoraggiamento da parte di François-René de Chateaubriand, con il quale sua madre, Delphine, aveva avuto un legame sentimentale (non l’unico: era stata anche l’amante del potente ministro di polizia Joseph Fouché), le sue opere letterarie ebbero, sì, una discreta accoglienza da parte della critica, ma non conobbero, poi, un conseguente successo di pubblico. In quegli anni di Custine si disse che dava soldi, molti soldi, ai recensori dei suoi libri, comprandone in qualche modo la benevolenza. Così accadde che, per non apparire corrotti, anche i critici gli voltassero le spalle e che l’ultima delle sua quattro fatiche letterarie, Aloys ou le Religieux du mont-Saint-Bernard (1829), prima ancora di essere rifiutata dai lettori, venisse stroncata dai giornali. Che si accanirono da quel momento contro lo stesso autore.
«Monsieur de Custine», scrisse Jules Sandeau, tempo dopo, su «Le Figaro», «è un gran signore, un uomo dotato di arte, di grazia e di spirito al quale non manca che un segretario». Sottinteso: un segretario in grado di rivedere i suoi scritti. Anche la prima parte della nota di Sandeau conteneva una velenosa allusione a una vicenda che, 11 anni prima, aveva danneggiato la reputazione di Custine. Nel 1821 il nostro autore aveva sposato Léontine de Saint-Simon de Courtomer e, l’anno successivo, dall’unione era nato Enguerrand (che sarebbe morto di meningite quattro anni dopo). Ma, a dispetto del concepimento di un figlio, il suo era stato un matrimonio di facciata. Nel 1822, poche settimane dopo la nascita di Enguerrand, Custine era fuggito in Inghilterra con Edouard de Sainte-Barbe. La moglie Léontine, ventenne, si ammalò, l’anno successivo morì e da quel momento Custine optò, in modo definitivo — ancorché privato — per l’amore omosessuale. Nel 1824 questa opzione sarebbe diventata pubblica allorché a Saint-Denis fu aggredito, spogliato, picchiato e abbandonato in un fosso dai compagni di un artigliere con il quale si era intrattenuto in un incontro amoroso. Episodio di cui le gazzette riferirono in modo assai circostanziato. E devastante per la sua immagine in società.
Nel 1829 scrisse l’opera teatrale Beatrice Cenci , che due anni dopo venne accettata dalla Comédie Française. Ma lui volle passarla al Théatre de la Porte-Saint-Martin, che la mise in scena nel 1833. E, anche sul palcoscenico, fu un fiasco. Nel frattempo Custine aveva iniziato a viaggiare, aveva visitato la Spagna di Ferdinando VII sulla quale — dopo La democrazia in America di Alexis de Tocqueville (1835), testo divenuto un modello per questo genere di trattazioni — decise di scrivere un libro (1838). Che fu pressoché ignorato dal pubblico, ma suscitò l’interesse di Honoré de Balzac. Il quale gli scrisse: «Esistono pochi libri moderni che possano reggere il confronto con questo… Voi siete il viaggiatore per eccellenza. Mi confonde quello che voi fate, mi sembra che sarei incapace di scrivere pagine come le vostre… Se farete lo stesso su ogni paese, avrete una raccolta unica nel suo genere e, credetemi, di grande valore. Me ne intendo al riguardo. Farò tutto quel che posso per indurvi a descrivere in tal modo la Germania, l’Italia minore, il Nord, la Prussia. Sarà un grande libro e una grande gloria». Pochi mesi dopo Custine partì alla volta di Pietroburgo e, quattro anni dopo, diede alle stampe La Russia nel 1839 , che adesso Adelphi ripropone con il titolo Lettere dalla Russia, nella traduzione di Paola Messori e accompagnato da un assai penetrante saggio introduttivo di Pierre Nora.
Questo libro — in quattro volumi — non convinse i critici, ma ebbe un immediato e imprevedibile successo tra i lettori. Il cinquantatreenne marchese Custine era partito alla volta di Pietroburgo per perorare alla corte dello zar Nicola I la causa di un suo nuovo amante, il conte polacco Ignacy Gurowski. Tornato dal viaggio, Gurowski aveva sedotto, rapito e sposato l’infanta Isabella di Spagna e Custine, amareggiato, si era rifugiato in Italia, dove aveva scritto tra il 1842 e l’inizio del 1843 La Russia nel 1839 . Un libro, forse anche per lo stato d’animo dell’autore, tra i più densi ed eleganti che mai siano stati scritti. Non solo da Custine. Riferisce l’autore che, alla partenza, un locandiere di Lubecca lo aveva avvertito che i russi «quando sbarcano per venire in Europa hanno un’aria gioviale libera, contenta; uomini, donne, giovani o vecchi che siano, tutti sono felici come scolari in vacanza… Ma al ritorno le stesse persone sono immusonite, cupe, tormentate; poche parole e toni bruschi, la fronte arcigna». Conclusione: «Un Paese lasciato con tanta gioia e ritrovato con tanto dispiacere è un brutto Paese».
«Singolare Paese quello in cui si generano soltanto schiavi che in ginocchio ricevono opinioni fatte da altri apposta per loro, spie che di opinioni non ne hanno alcuna così da carpire meglio quella degli altri, o denigratori che esagerano il male, altro sottile espediente per sfuggire all’occhio indagatore degli stranieri». Inutile la sontuosità dei russi: «I milioni spesi per Versailles diedero da vivere a tante famiglie di operai francesi, almeno quanti servi slavi furono uccisi dai dodici mesi impiegati al Palazzo d’Inverno». Triste la loro rassegnazione: «La tirannide è il morbo immaginario dei popoli; il tiranno, travestito da medico, li ha persuasi che la salute non è la condizione naturale dell’uomo civilizzato e che, quanto più grande è il pericolo, tanto più violento deve essere il rimedio: così accade che egli alimenta il male col pretesto di guarirlo». Prima di questo viaggio, rivela Custine, «le mie idee sul dispotismo me le aveva suggerite l’osservazione delle società austriaca e prussiana… Non tenevo conto che questi Stati sono dispotici soltanto di nome, e che lì i costumi agiscono da correttivo alle istituzioni». In Francia, «la tirannia rivoluzionaria è un male transitorio»; in Russia, «la tirannia del dispotismo è una rivoluzione permanente».
Nell’introduzione, Nora definisce Custine «l’uomo dai molti esili». «Esilio storico» di quella grande famiglia decapitata dell’Ancien Régime, che la Rivoluzione e il nuovo ordine mondiale avevano escluso dal gioco. «Esilio morale» dell’uomo «condannato a praticare, con un’alterigia da gran signore, costumi da lui stesso considerati un vizio contro il quale protestava la sua fede ardente, mistica e insieme rigorosamente dogmatica, quel cattolicesimo appreso fin dall’infanzia in cui non cessò di trovare una consolazione e un biasimo, qualcosa di somigliante alla tentazione del chiostro». «Esilio sociale» dell’aristocratico «brutalmente respinto da una casta che di colpo si invaghisce, in quegli anni bigotti, di una rinnovata religiosità penitente e delle stretture di una nascente morale borghese». «Esilio letterario», dal momento che «la sua creatività insufficiente lo confina nel dilettantismo agli occhi di quel mondo romantico passato dalla bohème all’accademia, che lo condanna alle iperboli compiacenti nelle quali Custine, troppo intelligente, non può che leggere i segni del disprezzo». «Esilio politico» del «legittimista abbandonato dalla rivoluzione di Luglio sui lidi della monarchia borghese e riconsegnato ai viaggi, come altri, oggi, ai loro amati studi».
Nora mette in rilievo come Tocqueville e Custine provenissero dal medesimo ambiente sociale, politico e religioso. Le famiglie di entrambi avevano patito sofferenze a causa del Terrore. L’uno e l’altro «sono specialmente legati ai valori aristocratici dell’Ancien Régime, guardano con pessimismo e disprezzo all’insediarsi della monarchia borghese e vedono nella religione la ragion d’essere dell’ordine sociale». La rivoluzione, i progressi dell’eguaglianza sociale sono un loro problema esistenziale. Uno è convinto di visitare l’Inferno, l’altro il Paradiso. Giungeranno alla stessa meta. Tocqueville alla convinzione che «i principi sui quali si basano le costituzioni americane, principi d’ordine, d’equilibrio dei poteri, di vera libertà, di rispetto sincero e profondo del diritto, sono indispensabili a tutte le repubbliche». Il viaggio di Custine sarà più tormentato e tortuoso: «Sono partito dalla Francia», scriverà, «con la paura per gli abusi di una libertà ingannevole, ritorno nel mio Paese persuaso che se il governo rappresentativo non è il più morale, parlando secondo logica, esso è saggio e moderato nella pratica; quando si vede che da un lato esso preserva i popoli dalla licenza democratica e dall’altro dagli abusi più flagranti del dispotismo… ci si domanda se non occorra mettere a tacere le proprie antipatie, e subire senza querimonie una necessità politica che dopo tutto porta, alle nazioni a essa preparate, più bene che male».
Interessante è il discorso di Custine sulla passione: «Quante tragedie furono recitate con freddo sentimento in un Paese dove l’ambizione, l’odio stesso sono, all’apparenza, calmi. Presso i popoli del Sud, la passione mi riconcilia in certo qual modo con la loro crudeltà; ma la circospezione calcolata, la freddezza dei nordici aggiunge al delitto una patina di ipocrisia: la neve è un camuffamento; qui l’uomo sembra mite perché è impassibile; ma l’assassinio senza odio mi inorridisce di più che l’omicidio a fini vendicativi… La religione della vendetta non è forse più naturale del tradimento per interesse? Più discerno, nel male, un impulso involontario e più mi sento consolato».
In Russia «alla caduta di un ministro, i suoi amici diventano sordi e ciechi… Un uomo è morto e sepolto non appena ha l’aria di non godere più il favore… Dico “ha l’aria”, perché non ci si arrischia mai a dire che qualcuno è caduto in disgrazia benché talvolta così appaia: ammettere il disfavore equivale a uccidere». Ecco perché «la Russia non sa, oggi, se esiste il ministro che ieri la governava». Custine scrive altre pagine molto acute sulla menzogna. «Bisogna dirlo, i russi di tutte le classi brigano, mirabilmente concordi, affinché in casa propria trionfi la doppiezza. Sono così bravi a mentire, così naturali nell’ipocrisia che la mia sincerità provoca spavento… Tutto quello che ammiro altrove, qui l’ho in odio perché lo trovo pagato a troppo caro prezzo: l’ordine, la pazienza, la calma, l’eleganza, le maniere cortesi, il rispetto, le relazioni naturali e morali che devono stabilirsi tra colui che concepisce un’idea e colui che esegue, insomma tutto ciò che costituisce il valore, il fascino delle società bene organizzate, tutto ciò che dà un senso e un fine alle istituzioni politiche, si confonde qui in un solo sentimento, la paura».
Custine, scrive Nora, «non ebbe torto a seguire l’esempio di Tocqueville, del quale non si è dimostrato indegno». I loro due libri fissarono un’epoca: «Da quel momento non si parlerà più della Russia, né dell’America come se ne parlava prima». Non solo. In qualche modo Tocqueville anticipò quel che l’America sarebbe divenuta nel secolo successivo e lo stesso fece Custine descrivendo, con molti decenni d’anticipo, quelli che sarebbero stati i caratteri principali dell’Unione Sovietica (come mise in evidenza George F. Kennan nel 1971) e persino della Russia odierna di Vladimir Putin.
Ma in questo libro c’è qualcosa di più della capacità di intravedere quel che sarebbe accaduto uno o due secoli dopo. «In Russia il principio del dispotismo agisce sempre con un rigore matematico, sicché da questa coerenza estrema discende un’estrema oppressione. Constatando l’effetto rigoroso di una politica inflessibile non si può non indignarsi e domandarsi sgomenti perché mai vi sia così poca umanità nelle opere dell’uomo. Ma tremare non equivale a spregiare: non si disprezza ciò che si teme».
Il governo russo «è una monarchia assoluta mitigata dall’assassinio; ora, quando il principe trema, non si annoia più; è così che vive fra il terrore e la nausea». «Quando la spia che vi tiene d’occhio è sorpresa in fallo dalla vostra apparente sicurezza, fa una faccia davvero grottesca perché si crede compromessa se appena si accorge che voi non temete affatto di esserlo da lui; la spia ha fiducia soltanto nello spionaggio; e se voi fuggite alle sue trappole si immagina di cadere presto nelle vostre».
Gli uomini (la servitù sarà abolita solo nel 1861) sono come alberi: «La più grande sciagura che li possa colpire è di vedere messo in vendita il loro suolo natio: in ogni momento possono essere venduti insieme alla gleba alla quale sempre sono aggiogati; l’unico vantaggio reale che abbiano finora ricavato dalle più miti leggi moderne è che non si può più vendere l’uomo senza la terra». Ma è difficile vendere la terra, così difficile che chi è gravato dai debiti e voglia pagarli finisce per chiedere in prestito alla banca imperiale le somme che gli occorrono e la banca emette ipoteca sui beni del mutuatario. Di conseguenza «l’imperatore diventa tesoriere e insieme creditore di tutta la nobiltà russa, e quest’ultima, così imbrigliata dal potere supremo, si trova nell’impossibilità di assolvere ai propri doveri verso il popolo». La Russia «è una caldaia d’acqua bollente ben sigillata, ma posta su un fuoco sempre più ardente: ne temo l’esplosione».
A seguito di questo libro, i grandi della letteratura si accorsero di lui e lo accolsero tra loro. Riconobbe Charles Baudelaire: «Custine è un sottogenere del genio, un genio il cui dandismo si innalza fino all’ideale dell’assenza di zelo. Una simile buona fede di gentiluomo, insieme all’ardore romanzesco, al sarcasmo leale, a questa personalità assoluta e svagata, sono inaccessibili ai sensi del grande gregge, e questo prezioso scrittore aveva contro tutta la fortuna che il suo talento meritava». Qualcuno, però, continuò a criticarlo. Stavolta, soprattutto molti russi, contestandogli qualche travisamento. Lui replicò con sicurezza: «I russi diranno che in tre mesi di viaggio ho visto male; è vero, ho visto male, ma ho intuito bene».