domenica 12 aprile 2015

Repubblica 12.4.15
La sentenza di Strasburgo
Lo schiaffo europeo alle nostre ipocrisie
di Piero Ignazi


DOVEVAMO aspettare la sentenza di un tribunale internazionale perché tutti riconoscessero quanto sia stato sfregiato lo stato di diritto al G8 di Genova. Da soli non ce l’abbiamo fatta. Gli italiani coltivano da sempre l’abitudine a girare la testa dall’altra parte e a far finta che i fatti spiacevoli non esistano. La nostra coscienza civile si è scontrata molte volte con la fatica di dover ammettere che i comportamenti si discostavano dalla immagine di noi che avevamo costruito. Quanto tempo e quanto lavoro storico serio, documentato, inoppugnabile sono stati necessari affinché venisse riconosciuto che la colonizzazione italiana era stata condotta lungo la linea del razzismo e della violenza. Invano, per anni, storici attenti e caparbi come Angelo del Boca avevano cercato di convincere nostalgici alla Montanelli che le spedizioni in Africa non avevano portato la civiltà, bensì massacri e deportazioni. Invece il mito dell’italiano brava gente si riproduceva inossidabile, indifferente alle evidenze contrarie, superando di slancio la collaborazione alla deportazione degli ebrei e le efferatezze dell’esercito italiano in Grecia e nella ex Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale. Mai una riflessione autocritica su massacri come quello nel paese greco di Dominikon dove vennero fucilati, per rappresaglia, 150 civili.
Per fare i conti con il nostro passato violento e criminale sarebbe stato necessario, anche allora, un intervento esterno, come l’imposizione di una Norimberga. Per tante ragioni è calato un velo di ipocrisia e di rimozione, fino ad arrivare all’armadio della vergogna, archivio sui crimini di guerra nazisti e sulle corresponsabilità italiane dimenticato per quasi cinquant’anni in un sottoscala ministeriale.
Se questo è il nostro passato, non può stupire che sulle violenze di stato commesse a Genova siano scesi rapidamente silenzio e oblio. Da un lato, l’egemonia, anche culturale, della destra nel primo decennio degli anni Duemila ha ristretto gli spazi di critica all’operato delle forze di polizia, dall’altro il bisogno di accreditarsi come un attore “responsabile” ha impedito alla sinistra di tradizione comunista di alzare la voce contro le deviazioni degli apparati di sicurezza (peraltro già evidenti durante il Global forum di Napoli del marzo 2001, prova generale della macelleria messicana di Genova: e anche su quell’episodio la Corte di appello, due anni fa, ha assolto tutti gli agenti incriminati).
La sentenza della Corte di Strasburgo assesta uno schiaffo all’indulgenza e alla rimozione. Solo grazie a questo intervento sono tornate a galla verità scomode che impongono una riflessione sull’effettiva garanzia dei diritti fondamentali anche e soprattutto in circostanze critiche. Solo grazie all’imbrigliamento in una rete di rapporti e obblighi internazionali evitiamo ritardi normativi da paese incivile. È stato il rischio di sanzioni finanziarie dell’Unione Europea a far approvare, alla fine di un lungo tira e molla, in extremis, un provvedimento per ridurre l’affollamento delle carceri. E se non avessimo firmato il trattato di Maastricht non avremmo messo un freno alla spirale del debito pubblico. Nonostante questo, di fronte ai richiami che vengono da Bruxelles, la classe politica manifesta spesso insofferenza, alimentando in tal modo un sentimento euroscettico. Certo, è umiliante dover essere ripresi ora su norme contrarie al diritto comunitario, ora su ritardi ad adempimenti dovuti, ora su assoluzioni scandalose. Perché rivela che abbiamo bisogno di un tutore che ci sorvegli e ci ammonisca.
“Il tempo può esaurirsi e il sangue non scorrere più, se però sangue c’è stato ed è scorso, la storia continua a trattenere il tempo”, scrive la filosofa spagnola Maria Zambrano nella Tomba di Antigone . Dalle stragi impunite alle violenze di stato, dal G8 a Cucchi e Aldrovandi, il sangue versato non ha avuto giustizia. Lo stato di diritto ha mostrato tutta la sua fragilità. Per fortuna, talvolta, come nella sentenza sull’assalto alla Diaz, l’appartenenza ad organismi internazionali e ad un sistema condiviso di regole che comportano vincoli e obblighi, rimedia alle nostre deficienze.