sabato 11 aprile 2015

Corriere 11.4.15
Nel Veneto umiliato di Zanzotto
di Mario Villalta


«Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità, ricca e vibrante, che ha caratterizzato la tradizione veneta». Anzi, provoca «impensabili fenomeni regressivi al limite del disagio sociale, devastazioni nell’ambito sociologico e psicologico». Diceva così Andrea Zanzotto in uno dei suoi colloqui con Marzio Breda, parlando degli effetti di quel «progresso scorsoio» che dava il titolo al libro uscito da Garzanti nel 2009 e ora ripubblicato in tascabile e in ebook con una nota di Claudio Magris. Testimone di una aggressione al paesaggio veneto che si accompagnava alla distruzione della cultura contadina, Zanzotto denunciava, nei suoi versi come in numerosi interventi, il dilagare della «megamalattia» che aveva trasformato il suo Veneto, la valle del Soligo dove abitava da sempre, in un territorio sfregiato da una edilizia casuale. Fino dai primi Anni 60, Zanzotto aveva richiamato, invano, l’attenzione su quello che stava accadendo. Nel 2009, a 88 anni, sconsolato, si affidava solo alla «disperata speranza» nell’intervento di un qualcosa, qualcuno che viene da fuori, magari «il vecchio E.T. cinematografico».
Il suo primo intervento sugli effetti di quella devastazione risaliva al 1962. Ma già allora aveva pubblicato diversi libri di poesia (il primo, significativamente, s’intitolava Dietro il paesaggio , 1951). Sentiva, fortemente, la responsabilità del dettato poetico. Commentando il celebre aforisma di Adorno (dopo Auschwitz non si può più scrivere versi) sosteneva che la poesia può riemergere a dispetto di qualunque previsione. Nasce anche da qui il recupero del dialetto, una tradizione che lo sviluppo stava annichilendo. Ma insieme, in una combinazione che è solo sua, Zanzotto usa parole, modi dire, reperti di quella Babele postmoderna che è l’esatto corrispettivo del mondo creato dal progresso scorsoio. Il problema poetico, scriveva Gianfranco Contini, si converte necessariamente in questione linguistica. Si riferiva, Contini, a Dante, ma in realtà a ogni poeta che ha a cuore una innovazione formale. Una formula critica che perfettamente si addice a Zanzotto, al suo inesauribile sperimentalismo. Solo a questo prezzo, diceva, a quello pagato nella combinazione di lingue lontane e incomunicabili, di arcaico e postmoderno, la poesia si salva. E, forse, ci salva.
Nel suo parlare di uomo schivo e ritirato, Zanzotto ripercorre con Breda i fatti della sua vita. I ricordi del padre pittore perseguitato dai fascisti, gli anni di università a Padova, la Resistenza, il suo socialismo utopista e umanitario, il suo rapporto con la psicoanalisi lacaniana. Rammenta, poi, l’incontro con Fellini per tre film, Casanova , La città delle donne , E la nave va . Fellini voleva, per Casanova , una serie di filastrocche in dialetto, più simili al petél — il linguaggio apparentemente senza senso dei bambini — che non a vere e proprie poesie. Suoni, echi di un mondo perduto, ricchi di remote suggestioni. A Fellini, del resto, Zanzotto avrebbe dedicato una raccolta di scritti raccolti sotto il titolo Il cinema brucia e illumina .
Uomo di vastissime letture, conoscitore di poeti (Hölderlin, Pound, l’adorato Montale), traduttore di Bataille, a volte sorprende in queste conversazioni come quando cita a memoria i versi della Conchiglia fossile dell’abate Zanella. Progressivamente deluso dalla politica, sempre meno religioso, Zanzotto rivendica la fede nella poesia, la sola, se vera e pura, che può evitare «le zone di pericolosa radioattività». Due anni dopo l’uscita di In questo progresso scorsoio , Zanzotto ci lasciava.

L’incontro : oggi alle 17 alla Biblioteca comunale di Pordenone si terrà un convegno su «L’idea di paesaggio in Zanzotto». Intervengono Marzio Breda, Matteo Giancotti e Gian