giovedì 30 aprile 2015

La Stampa 30.4.15
L’incoerenza dei separati in casa del Pd
di Federico Geremicca


Ora qualcuno dirà che il risultato era scontato, e qualcuno replicherà ironizzando sulla frantumazione della minoranza pd e sul peso specifico di ex premier ed ex segretari capaci di orientare - a proposito dell’Italicum - il voto di poco più del dieci per cento dei deputati democratici.
A quel che si osserva, insomma, il muro contro muro tra Renzi e parte del vecchio gruppo dirigente è destinato a continuare: col duplice rischio di diventare stantio (oltre che incomprensibile) e di far scivolare in secondo piano, purtroppo, il merito delle questioni di volta in volta in discussione.
Il succo di quel che è accaduto ieri nell’aula di Montecitorio è che Matteo Renzi - giungendo a ventilare perfino la caduta del governo e le elezioni anticipate - ha vinto, incassando la sua trentasettesima fiducia; e che le minoranze interne - confuse e divise - hanno subito una pesantissima sconfitta.
Che si tratti di una vittoria di Pirro o di una disfatta definitiva, lo diranno le prossime settimane. Ma in tutta evidenza c’è un problema politico che ha ormai raggiunto dimensioni tali da non poter più essere aggirato: e intendiamo il rapporto tra il premier-segretario ed una parte non insignificante del suo partito.
C’è un’evidente sproporzione, infatti, tra i toni e gli argomenti messi in campo nel lungo confronto svoltosi sulla riforma della legge elettorale e le determinazioni e gli atti conseguenti che avrebbero dovuto (dovrebbero) far seguito a un certo, allarmato argomentare. L’annotazione riguarda tanto le scelte effettuate dall’esecutivo, naturalmente, quanto i comportamenti delle opposizioni: e nel caso in questione, appunto, soprattutto della minoranza interna al Pd.
In questi mesi, dell’Italicum si è scritto e detto di tutto: sgombrando il terreno da faziosità e propagandismi, si può forse concludere - banalmente - che quella in via di approvazione non è la migliore delle leggi possibili ma è senz’altro preferibile all’orrendo e cancellato Porcellum. E che, soprattutto, non pare «strumento» sufficiente a trasformare la pur affaticata democrazia italiana in un regime dittatoriale.
Eppure, è proprio questa l’accusa più pesante lanciata contro Renzi, nella sua doppia veste di capo del governo e segretario del Partito democratico. Fin quando è Renato Brunetta - capogruppo di un partito di opposizione - a invitare il Parlamento alla resistenza contro il «fascismo renziano», c’è poco da dire: se non, magari, invitare a rapportare e «pesare» toni e critiche ai rischi e agli argomenti realmente in campo. Ma il discorso si fa diverso quando a sposare le stesse tesi - con toni solo più allusivi - sono leader di primissimo piano del partito di cui Renzi è segretario.
«Una violenza al Parlamento», ha accusato Roberto Speranza, capogruppo dimissionario alla Camera; «E’ la logica inaccettabile del “qui comando io”...», ha fatto sapere Enrico Letta; «Non è più il mio partito, qui è in gioco la democrazia», ha avvertito Pier Luigi Bersani. Lungi dall’entrare nel merito delle accuse mosse - perfette per stigmatizzare il comportamento di un avversario politico - quel che qui si pone in questione è altro: e cioè, se e quando a tali analisi corrisponderanno scelte e comportamenti conseguenti e coerenti.
Non è da ieri, infatti, che le minoranze interne al Pd contestano - con intensità variabile - qualunque provvedimento proposto dal governo: dal Jobs Act alla riforma del bicameralismo, le accuse piovute sul segretario-premier sono andate dal «populista» (buona per tutte le occasioni...) al «servo dei padroni». Ripetiamo: non è qui in discussione la fondatezza di tali contestazioni, ma piuttosto l’insostenibilità di un comportamento (un po’ dentro e un po’ fuori) che rischia di minare, prima di tutto, la credibilità e la coerenza di chi lo pratica.
Per chi non gira troppo intorno alle cose, è infatti inspiegabile che si resti in un partito che non si sente più proprio; e ancor meno comprensibile risulta continuare a sostenere un governo accusato di far violenza al Parlamento. Perché delle due l’una: o si crede davvero in quel che si dice - e ci si comporta di conseguenza - oppure no, e allora si è di fronte a fenomeni di autolesionismo nei confronti della stessa «ditta». A meno che, naturalmente, il vero obiettivo non sia l’evocata rivincita congressuale: ma il Congresso pd è lontano due anni, e nessuno - si spera - punta a un Vietnam politico-parlamentare lungo 24 mesi...