giovedì 30 aprile 2015

La Stampa 30.4.15
Un capogruppo e nuovo Senato
Il premio di Renzi ai “responsabili”
Dopo un mese di trattative il premier ha spaccato la minoranza
di Fabio Martini


Si è tenuto lontano dall’epicentro della battaglia per entrambi i giorni. Per 48 ore nell’aula di Montecitorio fischiavano gli insulti, sul voto di fiducia si determinava la più profonda frattura mai consumata dentro la sinistra del Pd, amicizie durate anni si incrinavano e in quel clima lì il presidente del Consiglio ha capito che era meglio non immischiarsi. Risparmiandosi insulti personalizzati e risparmiarli al Pd.
Calma e gesso
E così, nel primo pomeriggio, Matteo Renzi ha seguito da palazzo Chigi - e in tv - il risultato della prima fiducia, quella decisiva. E quando sullo schermo sono comparsi i numeri in rosso, Renzi non ha esultato più di tanto: «A questo punto me lo aspettavo». Il sì era scontato ma per il premier lo erano anche quei numeri schiaccianti, soprattutto lo scarto tra i 352 sì e i 207 no delle opposizioni unite: uno spread di 145 voti. Un abisso. E a quel punto, con una di quelle posture che di solito spiazzano i suoi interlocutori, Renzi ha dato disposizione ai suoi di non maramaldeggiare, di non cantare vittoria. Di non stravincere.
Certo, come ha detto lui stesso perché «la strada è ancora lunga», ci sono ancora due fiducie e un voto finale a scrutinio segreto. Ma quel self control è un espediente anche per non infierire sugli sconfitti. Renzi non ha sopportato certe battute di Bersani (e viceversa) e avrebbe voluto replicare. Ma nel giorno della vittoria parlamentare più importante della sua carriera politica, il premier ha preferito contenersi.
Una lunga trattativa
Certo, molto pathos in queste ultime 48 ore per quella prova di forza cercata e vinta. Ma Renzi - ecco il punto - aveva preparato da un mese il voto di ieri: dietro le quinte aveva aperto una trattativa politica e personale con l’area più dialogante della minoranza interna, un lavorìo tutto finalizzato alla nascita di una nuova e strutturata corrente, che non entrerà nell’area renziana, manterrà una connotazione di sinistra e che comunque alla sua nascita è già diventata l’area politica più forte del partito dopo quella renziana quella di Franceschini. Dietro il ministro Maurizio Martina, Enzo Amendola e Matteo Mauri cinquanta deputati e anche una decina di senatori.
Il gruppo dei Sessanta
Un’operazione alla quale si è dedicato nelle ultime settimane Luca Lotti, preziosissimo braccio destro del premier, e sulla quale Renzi ha deciso di «investire» politicamente. Perché - la prossima mossa del presidente del Consiglio - consisterà nel blindare la nuova corrente. Gratificandola. Separandola definitivamente dai loro ex capi-corrente, Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Gianni Cuperlo. Renzi sa che i 50 deputati e soprattutto i 10 senatori gli renderanno il cammino molto più tranquillo in tutti i passaggi più difficili.
Un «nuovo» Senato
Ma naturalmente il gruppo dei 60 andrà «pagato» politicamente. Ecco perché il presidente del Consiglio vuole concedere qualche modifica sulle riforme istituzionali, per potere consentire al nuovo gruppo di intestarsi la novità. Non c’è nulla di deciso, non ci saranno concessioni plateali, qualcosa sul processo legislativo che potrà essere perfezionato, forse qualcosa sulla rappresentanza delle Regioni, che potrebbe essere arricchita con la presenza dei presidenti. Una modifica che sta a cuore alla «ditta», che ancora elegge qualche Governatore.
Capigruppo in campo
Ma Renzi medita di premiare i «sessanta» anche assegnando alla nuova corrente di centrosinistra il capogruppo dei deputati. Certo, per la sostituzione di Speranza c’è la candidatura, in pole position, di Ettore Rosato, che già da diversi mesi ha dimostrato di avere i «numeri». Ma Renzi, pur apprezzando Rosato, preferirebbe premiare i «sessanta» e in quel caso si configura un testa a testa tra Cesare Damiano e (con qualche chances in più) Enzo Amendola.
Aperture sulla scuola
Un Renzi che guarda a sinistra, ma senza esagerare, anche sul campo della scuola. Alla vigilia di uno sciopero indetto da tutte le sigle sindacali, nessuna esclusa, il presidente del Consiglio significativamente fa marcia indietro su alcuni capisaldi del ddl: «Il preside non deve essere uno sceriffo».